Il Dono

di
Maria Teresa Lo Bianco Barbera

Il libro "Il Dono" è la testimonianza di un incontro prezioso che ha condotto l'autrice, all'età di 65 anni, alla conversione, dopo un'intera vita spesa lontana da Dio.
Esso narra, momento per momento, il turbamento che la sua anima ha vissuto quando è stata chiamata dal Signore e non capiva cosa stava succedendo in lei.
La lettura coinvolge il lettore che è chiamato a condividere il cambiamento interiore, l'abbandono delle vecchie abitudini, la ricerca di nuove amicizie e la scoperta del Vangelo.
Quando la Parola del Signore arriva a fare breccia in un cuore che si sta innamorando di Dio nulla rimane più al posto di prima e si comprende la frase di Gesù: "Io farò nuove tutte le cose".
Si riportano alcuni brani del libro ed alcune liriche che sono nate nel cuore dell'autrice quando, attonita, assisteva alla sua trasformazione interiore.

(...)

A mezzogiorno entrammo nella chiesa affollata e ci fermammo in fondo. Vi fu la lettura del Vangelo e poi un sacerdote con la barba si mise a parlare, non sapevo chi fosse, ma quello che diceva mi sorprese. Parlava con un linguaggio diretto, non era una predica, raccontava degli avvenimenti di vita di ogni giorno. Faceva riflettere sui comportamenti umani, non per criticarli e condannarli, ma per suscitare la consapevolezza dell’atto, del pensiero, dell’atteggiamento mentale o formale. Risvegliava il desiderio di entrare in se stessi per conoscersi meglio e interrogarsi.
 Il suo linguaggio era semplice, un po’ rude nei termini, a volte usava delle espressioni dialettali che meglio arrivavano a far comprendere le situazioni e avevano la capacità di fare cadere la tensione e aprire le porte ad un sorriso o anche ad una allegra risata. I suoi discorsi colpivano ogni forma di ipocrisia. “Usava” il Vangelo, la parola di Gesù gli serviva per mostrare la giusta via, condannando apertamente le istituzioni, sia laiche che religiose, che l’avevano dimenticata, travisata o, comunque, non la mettevano in pratica.

Quando uscii dalla chiesa dissi a me stessa e a mio marito: “Finalmente un sacerdote che fa dei discorsi per gli uomini e non recita un copione”. 


(...)
“Il Vangelo - diceva - è usato da alcuni cristiani come una spada per ferire, un metro per giudicare, invece di essere un modello di vita da vivere in maniera gioiosa, un annuncio nell’amicizia verso quei figli di Dio che non condividono la loro fede!” ed io mi domandavo se avesse letto nel mio pensiero e lo avesse esternato al posto mio. “La vita va oltre gli stretti confini entro i quali vorrebbero costringerla certe tradizioni, e le dimensioni della crescita personale superano largamente quelle che vengono comunemente indicate come giuste e normali”. Incredibile, lo avevo sempre pensato anch’io. “La fede non è una realtà statica, definitiva che si possiede una volta per tutte, ma è una realtà vitale che cresce in un continuo confronto con il Vangelo e la vita”. Questo significa, pensavo, che esiste all’interno della chiesa chi sa crescere con i tempi e adeguare la “Parola che fa nuove tutte le cose” alla realtà dell’oggi. Significa che c’è la possibilità per tutti, anche per me, di appartenere ad un gruppo di cristiani la cui fede si è sviluppata in modo “diverso”. Significa che Dio è il Dio di tutti, anche il mio che contestavo una certa chiesa cattolica, una certa classe ecclesiastica, un certo modo tutto cattolico di privatizzare la verità evangelica, di arrogarsi il primato  della giustizia, della verità, del paradiso.
Mi ero chiesta per anni il perché chi fosse nato in India, in Marocco, nel Tibet e fin da bambino cresciuto nella fede religiosa di un Dio chiamato in modo diverso dal nostro, poi non potesse entrare nella sua luce ma dovesse bruciare in eterno nel fuoco degli eretici.


(...)

Passavano i mesi, io continuavo a stare in fondo alla chiesa ad ascoltare e le giornate diventavano pesanti perché non riuscivo più a lavorare, ero disturbata da un pensiero fisso: “Io devo andare a parlare con questo frate se voglio riavere la pace - mi dicevo".
Ma pensavo: “Mettiamo che io riesca a parlargli, cosa gli racconto? Posso dirgli che per 60 anni ho rinnegato la chiesa che mi ha battezzata, che non ho sentito il bisogno di ringraziare Dio e che ora mi sento improvvisamente male e che voglio incontrare il Signore per dirgli grazie di tutti i doni che mi ha dato? Che voglio fare la Comunione e ricevere il perdono per potere occupare i primi posti in questa chiesa mentre ora mi sento solo degna di stare vicino al portone dell’uscita? E se lui mi chiede “Sei pentita” cosa gli rispondo? Io non sono pentita, io la penso sempre nello stesso modo ma il mio modo di pensare è simile al suo e come posso dirgli una cosa del genere? Potrebbe offendersi, pensare che voglio criticarlo o che lo ho frainteso”.
Così me ne morivo di desiderio di Dio, di voglia di svuotare il mio cuore per incontrare quel “Dio che è padre” come ripeteva instancabilmente questo sacerdote.

(...)
Poi d’improvviso si aprì una porta e la figura di un frate con le vesti svolazzanti apparve sulla soglia. Aveva in mano delle grosse chiavi che servivano ad aprire il cancello dietro il quale io attendevo, mi venne incontro, aprì il cancello e lo richiuse dietro di me. Quelle azioni dovevano rimanere un simbolo dentro il mio cuore, simbolo della porta che si apre per farmi entrare e che si richiude per non farmi uscire più.
(...)


(...)

Tornata a casa andai nella libreria e rispolverai un piccolo Vangelo che qualcuno aveva regalato ai miei figli con una dedica, quando, da grandi, avevano deciso di farsi cresimare. Lo aprii e la prima cosa che mi capitò tra le mani fu un’immaginetta messa li a mo’ di segnalibro: era una preghiera, bellissima, la preghiera di Mons Lebrun “Gesù parla ad un’anima”. La riporto nella sua interezza perché rileggerla ogni volta mi fa rivivere la stessa emozione di allora, è intitolata
Amami come sei.

 "Conosco la tua miseria, le lotte e le tribolazioni della tua anima, le deficienze e le infermità del tuo corpo; - so la tua viltà, i tuoi peccati, e ti dico lo stesso: Dammi il tuo cuore, amami come sei…".
Se aspetti di essere un angelo per abbandonarti all'amore, non mi amerai mai. Anche se sei vile nella pratica del dovere e della virtù, se ricadi spesso in quelle colpe che vorresti non commettere più, non ti permetto di non amarmi.
Amami come sei.
 In ogni istante e in qualunque situazione tu sia, nel fervore o nell'aridità, nella fedeltà o nella infedeltà, amami … come sei … Voglio l'amore del tuo povero cuore; se aspetti di essere perfetto, non mi amerai mai.
 Non potrei forse fare di ogni granello di sabbia un serafino radioso di purezza, di nobiltà e di amore? Non sono io l'Onnipotente? E se mi piace lasciare nel nulla quegli esseri meravigliosi e preferire il povero amore del tuo cuore, non sono io padrone del mio amore?
Figlio mio, lascia che ti ami, voglio il tuo cuore. Certo voglio col tempo trasformarti ma per ora ti amo come sei … e desidero che tu faccia lo stesso; io voglio vedere dai bassifondi della miseria salire l'amore. Amo in te anche la tua debolezza, amo l'amore dei poveri e dei miserabili; voglio che dai cenci salga continuamente un gran grido: "Gesù ti amo".
Voglio unicamente il canto del tuo cuore, non ho bisogno né della tua scienza né del tuo talento. Una cosa sola mi importa, di vederti lavorare con amore.
 Non sono le tue virtù che desidero; se te ne dessi, sei così debole che alimenterebbero il tuo amor proprio; non ti preoccupare di questo. Avrei potuto destinarti a grandi cose; no, sarai il servo inutile; ti prenderò persino il poco che hai… perché ti ho creato soltanto per l'amore.
Oggi sto alla porta del tuo cuore come un mendicante, io il Re dei Re! Busso e aspetto; affrettati ad aprirmi. Non allargare la tua miseria; se tu conoscessi perfettamente la tua indigenza, morresti di dolore. Ciò che mi ferirebbe il cuore sarebbe di vederti dubitare di me e mancare di fiducia.
Voglio che tu pensi a me ogni ora del giorno e della notte; voglio che tu faccia anche l'azione più insignificante solo per amore. Conto su di te per darmi gioia …
Non ti preoccupare di non possedere virtù; ti darò le mie.
Quando dovrai soffrire, ti darò la forza. Mi hai dato l'amore, ti darò di sapere amare al di là di quanto puoi sognare…
Ma ricordati… amami come sei …
Ti ho dato mia Madre; fa passare, fa passare tutto dal suo cuore così puro.
Qualunque cosa accada, non aspettare di essere santo per abbandonarti all'amore, non mi ameresti mai … Va …"

 Questa preghiera sembrava scritta per me e forse lo era, certo era stata scritta per chi, come me, titubante, si riaccosta a Dio ed ha paura di non essere accettato perché non si ritiene degno. La lessi tante e tante volte e mi sembrò un messaggio.
Cominciai a leggere il Vangelo, non lo avevo mai letto. Le mie conoscenze si erano fermate alla “Bibbia del bambino”, letta a 10 anni e alla lettura dei brani evangelici quelle poche volte che ero andata a Messa. Non riuscivo più a staccarmi da quel libricino, leggevo e poi ritornavo su quel che avevo letto per capirlo meglio, quanta strada da fare ancora!


(...)
Sentivo nascere dentro di me una forza nuova, un desiderio infinito di ringraziare il Signore in modo diverso, di dirglielo più chiaramente di come facevo nell’intimità della mia anima.
Un giorno a Favignana, un’isola bellissima nel mare di Sicilia, mi alzai presto per godere del silenzio e del fresco delle ore mattutine. La casa dove ero ospite era in una lingua di terra brulla che avanzava nel mare, ai bordi vi erano scogli pieni di gabbiani giganti che spesso si alzavano in volo felici. Ad un tratto ne vidi una coppia bellissima che planava sull’acqua, poi improvvisamente cantando impennò il volo verso l’alto in una corsa allegra. Sentii la voglia di scrivere, presi un foglio dalla borsa e con una matita rudimentale scrissi la mia prima poesia che mi piace riportare qui, s’intitola “Insegnami a volare”.

Insegnami a volare!
Quando la tristezza mi assale,
quando la vita si fa dura,
quando la realtà mi fa scivolare,
Tu, prendimi per mano e
insegnami a volare!

Quando la pace si allontana,
quando il gorgo del rumore
risucchia il mio silenzio,
quando la violenza minaccia il mio cammino,
Tu, con un colpo d’ale  sollevami e,
insegnami a volare!

Coppia di gabbiani allineati
in un volo pieno di allegria,
Tu ed io,
aiutami a muovere le ali secondo il Tuo disegno,
ti prego, Gesù,
insegnami a volare!

 La rilessi e mi piacque. Io non avevo mai scritto poesie ma ora le parole si mettevano insieme da sole ed io provavo una gioia immensa ad accostarle, ad usarle come pennello per esprimere uno stato d’animo. Dopo questa poesia ne scrissi tante altre ed ora sono così numerose che potrei pubblicarne un libro. E’ l’amore per il Signore che ha instillato nel mio cuore la poesia.

(...)
La mia fede aumentava, si affinava, la mia vita cambiava, i miei interessi erano così diversi da quelli di prima, non riuscivo più a frequentare gli amici di una volta, un giorno parlando con il Signore, come ormai faccio sempre, gli dissi: “rimarrò senza amici, ma se è questo che tu desideri non importa”. Per amico ormai avevo Lui, il mio Dio e cominciai con Lui una corrispondenza, i miei pensieri li mettevo per scritto, così nacquero “i miei colloqui con il Signore”, li intitolai “parliamo” ed ora quelle lettere-colloqui sono tante...
Avevo tanto desiderio di capire, di conoscere meglio Gesù, dovevo recuperare 60 anni di latitanza. Chiesi alla mia guida di aiutarmi e lui mi consigliò di leggere “la pace del cuore”, un breve libro che gli era piaciuto tanto. Questa indicazione mi servì ad aprire un nuovo canale di conoscenza, andai in internet, cercai un sito su cui ordinare il mio libro e così facendo scoprii che la figura di Gesù costituisce il best seller in assoluto nel mondo. I libri che sono stati scritti su di Lui sono davvero tanti! Ordinai quel libro ed insieme ne ordinai altri, in pochi giorni i libri arrivavano ed io li divoravo. Più leggevo più capivo le sfumature del vangelo.
Avevo voglia di scrivere e la poesia sbocciava spontanea dal mio cuore. Un giorno ero rattristata e pensavo ai giovani che non sorridono più, che sono stanchi di vivere, che si drogano e immaginai una scala luminosa, avrei voluto metterla davanti a loro per insegnare loro il percorso della vita, mi misi al computer e scrissi questa poesia che poi ho usato come dono ogni volta che incontro un giovane turbato, s’intitola “Una scala fatta di luce”.

Ora son certa, ho avuto una visione,
non so dirvi l’età forse vent’anni,
i suoi capelli formavano una cresta
e aveva un orecchino appeso al naso.
L’aspetto suo era stanco ed annoiato
teneva gli occhi fissi sui suoi piedi
e ai piedi calzava scarpe da guerriero. 

Io gli andai incontro tendendogli la mano,
lui mi lanciò uno sguardo di terrore
“vai via”, mi disse, “disprezzo quel tuo gesto,
non ho bisogno certo del tuo aiuto
sparisci e non guardarmi in questo modo,
odio il tuo mondo dove tutto è buono,
odio la gente che agisce come te,
mi parla in maniera sdolcinata
e pensa di comprarsi il paradiso
sbattendomi in faccia il tuo sorriso”.  
“Che ne sapete voi dei miei problemi?
Delle speranze e delle delusioni
dei calci ricevuti e le esclusioni
della rabbia profonda che ti uccide
che t’impedisce di credere in te stesso
e ti domandi che cosa ci stai a fare
in un mondo che ha chiuse le sue porte
e ti ha privato della dignità”?

 Il sangue si gelò nelle mie vene
d’un tratto mi apparve la realtà.
Quanta miseria e quanta sofferenza,
quanta tristezza e quanta umanità.
Lessi il bisogno d’amore in quel rifiuto,
la voglia di coerenza e di giustizia
ed il rigetto di ogni falsità.
Fu allora che la vidi quella luce
spuntava come un fulmine nel buio
ma invece di svanire in un momento,
prendeva corpo e s’intensificava.
Aveva le sembianze di una scala,
una scala poggiata sulla terra
che saliva, saliva verso il cielo,
superava in altezza le galassie,
sprofondava nel manto delle stelle
e dalla vista spariva in un puntino
che era il limite del mondo col principio.

Quante domande mi vennero alla mente
sarà un messaggio, un segno del Signore,
una nuova cometa, un’alleanza,
un arcobaleno che illumina la notte,
una promessa, un invito, una speranza!
Ero stordita, la luce mi abbagliava,
dagli occhi non vedevo,
volevo avvicinarmi a quella scala
ma non riuscivo a muovermi,
i piedi incollati sulla terra
non davano più il passo,
provai a gridare ma non uscì la voce,
provai a parlare ma non uscì parola,
provai a pregare
e qualcosa si mosse in fondo al cuore,
qualcosa si  schiarì davanti a me.

Mi parve un ombra, l’avevo già veduta.
Certo era un uomo, forse un ragazzo,
aveva una cresta di capelli sopra il capo,
era di spalle e il volto mi sfuggiva
ma quando mosse il passo vidi i suoi  piedi
con scarpe calzate da guerriero.
Si muoveva spedito, ed avanzava
non verso  me, ma verso quella luce
e con semplicità pose la mano
sul legno luminoso che svettava,
prese lo slancio e  salì il gradino:
il corpo suo fu tutto illuminato.
Andava piano col passo un poco incerto
ma procedeva avanti sulla scala,
io lo seguivo col cuore che pulsava
e dal mio labbro usciva la preghiera:

aiutalo a salire mio Signore,
portalo in alto, non farlo ricadere,
rendi la mano forte nella presa,
il passo più sicuro nell’ascesa,
illumina il percorso verso il cielo
e liberalo da tutti i suoi fardelli.

Ecco dal cielo piovvero le stelle
erano tante, erano i dolori,
i torti sofferti  e i suoi rimorsi,
la voglia d’amare mai esaudita,
la tenerezza che non aveva avuta,
la solitudine compagna della vita,
la gioia repressa mai provata,
il desiderio della dignità.
Continuavo a seguirlo nell’ascesa,
il suo passo all’inizio faticava
ma poi si sciolse, divenne disinvolto:
i gradini saliva ad uno ad uno
con leggerezza e con tranquillità.
Lo vidi arrivare tra le stelle
e si stagliava nitido nel cielo,
finché divenne un punto luminoso,
appeso tra il confine e l’infinito, 
un punto che brillava come un faro.

Il corpo mio si sciolse dal torpore,
il piede mio riprese a camminare,
sapevo che quell’uomo nella luce
si era ripreso la sua dignità.


(...)
il sentimento che nutrivo per Gesù stava diventato immenso. Un giorno gli feci una vera e propria dichiarazione d’amore in versi, gli scrissi la poesia che s’intitola “Il Tuo volto”.

Voglio adorarti  e immaginare il volto
che Ti appartenne quando fatto uomo
sei venuto a vivere tra noi.
Era un volto sereno e appassionato,
acceso da uno sguardo luminoso
che sconvolgeva la vita che guardava.

Un volto segnato dal dolore,
che sapeva aprirsi nel sorriso
ed esprimere il segno del perdono,
che ti fissava per farti innamorare,
che ti colpiva diritto dentro al petto
e non potevi più dimenticare.

Da quante donne è stato accarezzato
nel segreto più intimo e nascosto
e quanti uomini lo hanno contemplato
in un fremito d’amore mai provato.
Quanti bambini lo hanno poi sognato
dopo un abbraccio o dopo una carezza,
quanti potenti …  non lo hanno più scordato.

Il Tuo volto è qui davanti a me,
se chiudo gli occhi dilaga nella mente,
quando lavoro mi turba e mi confonde
e se gli sfuggo s’insinua nel mio petto
ne blocca i battiti e scardina il pensiero.

Se Tu mi guardi
un brivido mi corre per la schiena,
come petali bianchi si sfogliano le pene,
come venti domati si placano i dolori,
la gioia si accende come un sole,
la pace, scorrendo nelle vene,
mi cura le ferite e mi consola.

Il tuo sorriso ridona la parola,
marca, potente, i modi della vita,
stravolge le certezze prefissate,
abbatte le barriere mai varcate,
elimina distanze sconfinate.

Ora il tuo volto lo vedo sulla Croce
ed il tuo capo mi appare incoronato,
ma tra le spine fioriscono le gemme
e sopra il legno si posa la colomba,
e vedo i chiodi dissolversi in colori:
sono dei fiori, dei fiori profumati.
Quanta fragranza emanano i pistilli!
Quanta bellezza s’irradia dalla Croce!

E quanta luce!
E’ un fiume che m’invade,
che scroscia dalla roccia e mi accarezza,
mi entra nell’anima per portarvi la vita,
dilaga nel sangue per irrorare il cuore,
s’insinua profondo per insegnarmi ad essere,
mi avvolge in un abbraccio e mi rincuora.

Col dono del perdono sconvolge l’esistenza,
mi fa spiccare il volo,
mi libera nell’aria
e dalle cime in alto
mi fa vedere il mondo con tutti i suoi problemi,
con tutte le sue pene che perdono valore,
con tutte le miserie che appaiono lontane,
con tutte le paure che non comprendo più.

 Sorrido e sorridendo
volgo lo sguardo verso quella luce,
pian piano mi avvicino
e in uno slancio tendo verso di lei le mani giunte,
poi prendo forza e vinta dall’amore apro le braccia
e me la stringo al cuore la Tua Croce. 


(...)
Pensai al significato profondo della parola “miracolo”, meraviglia, straordinario e mi chiedevo quale potesse essere l’avvenimento più straordinario se non quello che avviene dentro di noi. Il miracolo più grande è il cambiamento del cuore che si apre all’amore perché solo così può conoscere Dio che è l’essenza pura dell’amore. Le parole della mia guida mi risuonavano chiare e si erano radicate in me: “Dio è padre, vi ama e questo Padre vi sta sempre accanto, non vi chiede cose eclatanti, azioni straordinarie, sacrifici, vi chiede di riconoscerlo e amarlo nella quotidianità, nelle piccole azioni della vostra giornata, nel sorriso che rivolgete a chi vi passa accanto, nel modo in cui amate i vostri familiari o svolgete il vostro lavoro. Non dite mai che non vi sentite degni del Suo amore, non c’è dolore più grande che voi possiate dargli, siete figli suoi, vi ha fatto a Sua immagine e somiglianza e quale padre può pensare che il figlio non sia degno del suo amore”?
Con queste certezze nel cuore mi preparavo a “festeggiare” il mio primo compleanno.


(...)
Dire che ormai volavo può sembrare esagerato a chi non riceve il dono delle ali. A me il Signore le aveva date, erano delle ali piccole ma potevo volare. Pensando a questo dono volevo ringraziarlo e immaginai che forse il mio volo assomigliasse a quello di una piccola, bella farfalla variopinta che sale verso il cielo, volteggia e poi ritorna in terra. Così scrissi una piccola lirica delicata, s’intitola: “Ali di farfalla”.

Fammi volare con ali di farfalla
per scoprire l’essenza del creato,
voglio posarmi sul nettare dei fiori
dove hai lasciato un’ orma di dolcezza,
voglio sfiorare i bordi dei ruscelli
e sulle acque scoprire il Tuo riflesso,
voglio imitare la voce degli uccelli
per confidarti la gioia di pregare,
voglio tracciare girandole nel cielo,
corse e ritorni, volteggi in libertà,
poi ritrovarti in terra
tra le cose che mi hai donate
ed abbracciarti, con la mia umanità.


(...)
Un giorno, di recente, dal mare di Sicilia, ricordando il mio percorso bello, sentendo la gioia soffocarmi ho cominciato a ringraziare Dio. L’ho ringraziato per tutto quello che dona agli uomini, per quei colori di cui ha tinto il mare, per quei misteri di cui ha impregnato il cielo, per il suo amore che respiriamo nell’aria piena di salsedine, i versi si sono formati da soli nel mio cuore, si sono aperti liberi come la corolla di un fiore e appena tornata a riva li ho riportati su carta, ne è uscito un inno alla vita.

Pennellate di bianco, sfumature di viola,
verdi che volgono al turchese
e nascondono i blu dell’onda che s’increspa,
maglie dorate ricamate dai raggi del sole sul fondale,
monti che si elevano al cielo selvaggi e brulli
colorati di ocra e di nocciola,

abbraccio di un azzurro assurdo

fatto di luce intensa  

che penetra nella linfa del corpo
 
e ne scolora il sangue.
 

Io sono immersa nella liquidità di questo cielo
e scorgo il calore della Tua presenza,  
sento la brezza fresca del Tuo respiro che m’inebria
 
e, come il sole fa nascere la vita,
 
così il Tuo alito mi ridesta all’amore!
 
Dio mio, ti ho scorto mentre volavi basso,
 
quasi a toccare l’onda e mi sfioravi il capo,
 
le Tue ali grandi erano aperte e fendevano l’aria,
 
avevi l’aspetto di un gabbiano, grande,  possente
 
che riempiva di sé tutto lo spazio
 
ed io ho sentito esplodere la vita,
 
cantare il mondo, danzare intorno a me tutte le cose
 
e ti ho chiamato, ho gridato il Tuo nome,
 
ti ho urlato il mio bisogno di volare,
 
la smania di accoglierti nel cuore,
 
la voglia immensa di lasciarmi andare
 
e languire d’amore accanto a te!
 

(...)

(...)

Era un giorno come tanti altri ed io mi trovavo a Fregene ospite di mia figlia, ero lì con mio marito per passare due giorni. La mattina presto mi venne il desiderio di preparare la colazione e poi mettermi in giardino a leggere un bel libro, ma non trovai il caffè. Lo cercai da per tutto e non sapevo che mia figlia aveva l’abitudine di conservare il caffè nel frigorifero! Così per fare una cosa gradita a lei e a mio marito (sono anni che io non bevo più caffè!) pensai di andarlo a comprare, erano le 8 di mattina. Chiesi a mio marito se desiderasse il giornale e, cantando, con il cuore leggero e la mente ricolma di pensieri belli, mi misi in macchina sostando nella strada principale per acquistare un quotidiano.

Lasciai la macchina accanto al marciapiede e scesi davanti al giornalaio, non c’era nessuno per la strada. Dopo due minuti, tornata alla vettura, vidi che un autobus blu della linea COTRAL aveva effettuata la fermata nell’area a lui riservata, ad alcuni metri dietro la mia vettura (otto per l’esattezza), e stava facendo scendere i passeggeri. Contenta di essere già davanti alla mia macchina in tempo utile per entrarvi e liberare la strada al percorso del pullman, levai l’allarme. Con sorpresa, mi accorsi che l’autobus non mi dava il tempo di entrare nella macchina perché, con mossa repentina, aveva iniziata una manovra per superare la mia vettura ferma con me a lato. Disposi il mio dorso subito contro la portiera della mia macchina per sicurezza, ma mi resi conto che il pullman mi  si stava avvicinando troppo e la sua coda sarebbe stato in breve a pochi centimetri da me. Spinsi il mio dorso con tutta la forza contro la portiera che, nell’impatto, rientrò vistosamente stampando su di essa la sagoma della mia figura. Capii che lo spazio vitale che l’autobus mi lasciava era troppo esiguo per non essere schiacciata. Non ebbi paura, ero tropo frastornata. Nello stesso istante, sentii una forza strana che imprimeva alla mia gamba sinistra una energia tanto forte da farla saltare ripetutamente in aria, l’impulso che esercitava sul mio piede era incontrollabile e non riuscivo a capire da cosa dipendesse, qui persi l’equilibrio. Non caddi però di colpo, fui sospinta di lato e depositata sull’asfalto sul fianco destro con il rallentatore. Mi trovai adagiata sul gomito destro che, nell’attrito con il manto stradale, si sbucciò lievemente. Capii che la mia vita era salva, notai che il mio braccio si muoveva senza dolore, che la mia spalla non era fratturata e che, nella caduta, ero stata trasportata nella parte in cui il pullman, che avanzava un po’ di sbieco, era abbastanza lontano dalla mia macchina e non mi avrebbe più schiacciato. Mentre questi pensieri mi occupavano la mente sentii un gran dolore al piede destro e mi resi conto che l’autobus si era fermato su di esso! Cominciai a gridare aiuto, aiutatemi a liberare il piede, la ruota si è fermata sul mio piede. Accorsero delle persone che erano al bar vicino a fare colazione e suggerirono all’autista la manovra da fare per liberarmi il piede. Il pullman avanzò, mi schiacciò il resto del piede e, con terrore, mi accorsi che, così facendo, stava salendo sopra l’altro piede, urlai: “L’altro piede, mi sta arrotando l’altro piede, fermatelo!”. Un angelo, che vorrei conoscere per ringraziarlo, mi prese per le ascelle, mi scosse su e giù in modo che il piede sinistro si liberasse dalla scarpa di stoffa, allacciata da un semplice strip adesivo, e il mio piede sinistro, scalzo e sano, riapparve alla luce ancora attaccato alla caviglia! La scarpa, però, rimase sotto la ruota dell’autobus che l’aveva già addentata! Un dolore terribile mi invase, ma non persi la lucidità. Sentivo in cuore una gratitudine infinita per la vita che il Signore mi aveva conservato, ma non capivo il perché di quell’incidente tanto stupido che non aveva ragioni plausibili per essere accaduto. Guardai l’autista che stava fermo in silenzio, ad alcuni metri di distanza, senza rivolgermi uno sguardo, una parola di scusa o di solidarietà. Gli domandai se nel suo petto battesse un cuore, se l’altro per lui fosse trasparente e se avesse mai sentito parlare d’amore e di fraternità. Per tutta risposta mi disse che non aveva potuto fare una manovra più ampia perché nell’altra corsia vi erano delle macchine posteggiate. Nel mio cuore non vi trovai astio verso di lui, pregai il Signore di perdonarlo e intenerirgli il cuore che sembrava di pietra.

In un attimo, che mi sembrò eterno, passai in rassegna tutta la mia vita e mi resi conto che avevo perso la libertà, che tutto sarebbe cambiato e che non avrei più potuto, per lungo tempo, partecipare alla Messa di Renzo e  pascermi del Vangelo attraverso la sua parola; pensai ai miei nipotini che non avrei più potuto accudire come desideravo; mi si affollarono alla mente tutti i problemi vitali legati a quell’incidente, tra i primi quello enorme di mio marito malato. Forse non avrei più camminato... tutte le attività che riempivano la mia vita sarebbero state sospese! Sentii una stretta al cuore e la offrii al mio Dio perché fosse fatta la Sua volontà su di me e, dal mio dolore, dalla mia rinunzia, nascessero dei frutti d’amore.

Chiamai i miei familiari con il telefonino e lanciai uno sguardo al piede: tutte le dita erano state divelte e pendevano scomposte come soldatini abbattuti sul campo di battaglia, il piede era gonfio e stava diventando nero, mi misero del ghiaccio ed aspettai l’ambulanza, mentre la polizia municipale interrogava le persone e scattava fotografie. Le persone mi guardavano con curiosità, l’autobus si era fermato a solo 15 centimetri dalla mia vettura, era un miracolo che io fossi viva e di questo mormoravano. Capii che quella forza strana impressa alla mia gamba sinistra che mi aveva fatto saltare e perdere l’equilibrio era venuta dal cielo e mi aveva permesso di non essere ridotta in poltiglia. Promisi al Signore che la somma ricevuta dalla assicurazione l’avrei adoperata per salvare la vita ai bambini svantaggiati e così ho fatto. Quando l’ambulanza arrivò, pregai il mio Dio che mi portassero in un centro capace di darmi l’assistenza necessaria all’emergenza.

(...)