A mezzogiorno
entrammo nella chiesa affollata e ci fermammo in fondo. Vi fu la lettura
del Vangelo e poi un sacerdote con la barba si mise a parlare, non
sapevo chi fosse, ma quello che diceva mi sorprese. Parlava con un
linguaggio diretto, non era una predica, raccontava degli avvenimenti di
vita di ogni giorno. Faceva riflettere sui comportamenti umani, non per
criticarli e condannarli, ma per suscitare la consapevolezza dell’atto,
del pensiero, dell’atteggiamento mentale o formale. Risvegliava il
desiderio di entrare in se stessi per conoscersi meglio e interrogarsi.
Il suo
linguaggio era semplice, un po’ rude nei termini, a volte usava delle
espressioni dialettali che meglio arrivavano a far comprendere le
situazioni e avevano la capacità di fare cadere la tensione e aprire le
porte ad un sorriso o anche ad una allegra risata. I suoi discorsi
colpivano ogni forma di ipocrisia. “Usava” il Vangelo, la parola di Gesù
gli serviva per mostrare la giusta via, condannando apertamente le
istituzioni, sia laiche che religiose, che l’avevano dimenticata,
travisata o, comunque, non la mettevano in pratica.
Quando uscii
dalla chiesa dissi a me stessa e a mio marito: “Finalmente un sacerdote
che fa dei discorsi per gli uomini e non recita un copione”.

(...)
“Il
Vangelo - diceva - è usato da alcuni cristiani come una spada per
ferire, un metro per giudicare, invece di essere un modello di vita da
vivere in maniera gioiosa, un annuncio nell’amicizia verso quei figli
di Dio che non condividono la loro fede!” ed io mi domandavo se avesse
letto nel mio pensiero e lo avesse esternato al posto mio. “La vita va
oltre gli stretti confini entro i quali vorrebbero costringerla certe
tradizioni, e le dimensioni della crescita personale superano largamente
quelle che vengono comunemente indicate come giuste e normali”.
Incredibile, lo avevo sempre pensato anch’io. “La fede non è una realtà
statica, definitiva che si possiede una volta per tutte, ma è una realtà
vitale che cresce in un continuo confronto con il Vangelo e la vita”.
Questo significa, pensavo, che esiste all’interno della chiesa chi sa
crescere con i tempi e adeguare la “Parola che fa nuove tutte le cose”
alla realtà dell’oggi. Significa che c’è la possibilità per tutti, anche
per me, di appartenere ad un gruppo di cristiani la cui fede si è
sviluppata in modo “diverso”. Significa che Dio è il Dio di tutti, anche
il mio che contestavo una certa chiesa cattolica, una certa classe
ecclesiastica, un certo modo tutto cattolico di privatizzare la verità
evangelica, di arrogarsi il primato della giustizia, della verità,
del paradiso.
Mi ero
chiesta per anni il perché chi fosse nato in India, in Marocco, nel
Tibet e fin da bambino cresciuto nella fede religiosa di un Dio chiamato
in modo diverso dal nostro, poi non potesse entrare nella sua luce ma
dovesse bruciare in eterno nel fuoco degli eretici.

(...)
Passavano i
mesi, io continuavo a stare in fondo alla chiesa ad ascoltare e le
giornate diventavano pesanti perché non riuscivo più a lavorare, ero
disturbata da un pensiero fisso: “Io devo andare a parlare con questo
frate se voglio riavere la pace - mi dicevo".
Ma pensavo:
“Mettiamo che io riesca a parlargli, cosa gli racconto? Posso dirgli che
per 60 anni ho rinnegato la chiesa che mi ha battezzata, che non ho
sentito il bisogno di ringraziare Dio e che ora mi sento improvvisamente
male e che voglio incontrare il Signore per dirgli grazie di tutti i
doni che mi ha dato? Che voglio fare la Comunione e ricevere il perdono
per potere occupare i primi posti in questa chiesa mentre ora mi sento
solo degna di stare vicino al portone dell’uscita? E se lui mi chiede
“Sei pentita” cosa gli rispondo? Io non sono pentita, io la penso sempre
nello stesso modo ma il mio modo di pensare è simile al suo e come posso
dirgli una cosa del genere? Potrebbe offendersi, pensare che voglio
criticarlo o che lo ho frainteso”.
Così me ne
morivo di desiderio di Dio, di voglia di svuotare il mio cuore per
incontrare quel “Dio che è padre” come ripeteva instancabilmente questo
sacerdote.
(...)
Poi
d’improvviso si aprì una porta e la figura di un frate con le vesti
svolazzanti apparve sulla soglia. Aveva in mano delle grosse chiavi che
servivano ad aprire il cancello dietro il quale io attendevo, mi venne
incontro, aprì il cancello e lo richiuse dietro di me. Quelle azioni
dovevano rimanere un simbolo dentro il mio cuore, simbolo della porta
che si apre per farmi entrare e che si richiude per non farmi uscire
più.
(...)

(...)
Tornata a
casa andai nella libreria e rispolverai un piccolo Vangelo che qualcuno
aveva regalato ai miei figli con una dedica, quando, da grandi, avevano
deciso di farsi cresimare. Lo aprii e la prima cosa che mi capitò tra le
mani fu un’immaginetta messa li a mo’ di segnalibro: era una preghiera,
bellissima, la preghiera di Mons Lebrun “Gesù parla ad un’anima”. La
riporto nella sua interezza perché rileggerla ogni volta mi fa rivivere
la stessa emozione di allora, è intitolata
Amami
come sei.
"Conosco la tua miseria, le lotte e le tribolazioni della tua anima, le
deficienze e le infermità del tuo corpo; - so la tua viltà, i tuoi
peccati, e ti dico lo stesso: Dammi il tuo cuore, amami come sei…".
Se aspetti di essere un angelo per abbandonarti all'amore, non mi amerai
mai. Anche se sei vile nella pratica del dovere e della virtù, se ricadi
spesso in quelle colpe che vorresti non commettere più, non ti permetto
di non amarmi.
Amami come sei.
In ogni istante e in qualunque situazione tu sia, nel fervore o
nell'aridità, nella fedeltà o nella infedeltà, amami … come sei … Voglio
l'amore del tuo povero cuore; se aspetti di essere perfetto, non mi
amerai mai.
Non potrei forse fare di ogni granello di sabbia un serafino radioso di
purezza, di nobiltà e di amore? Non sono io l'Onnipotente? E se mi piace
lasciare nel nulla quegli esseri meravigliosi e preferire il povero
amore del tuo cuore, non sono io padrone del mio amore?
Figlio
mio, lascia che ti ami, voglio il tuo cuore. Certo voglio col tempo
trasformarti ma per ora ti amo come sei … e desidero che tu faccia lo
stesso; io voglio vedere dai bassifondi della miseria salire l'amore.
Amo in te anche la tua debolezza, amo l'amore dei poveri e dei
miserabili; voglio che dai cenci salga continuamente un gran grido: "Gesù
ti amo".
Voglio unicamente il canto del tuo cuore, non ho bisogno né della tua
scienza né del tuo talento. Una cosa sola mi importa, di vederti
lavorare con amore.
Non sono le tue virtù che desidero; se te ne dessi, sei così debole che
alimenterebbero il tuo amor proprio; non ti preoccupare di questo. Avrei
potuto destinarti a grandi cose; no, sarai il servo inutile; ti prenderò
persino il poco che hai… perché ti ho creato soltanto per l'amore.
Oggi sto alla porta del tuo cuore come un mendicante, io il Re dei Re!
Busso e aspetto; affrettati ad aprirmi. Non allargare la tua miseria; se
tu conoscessi perfettamente la tua indigenza, morresti di dolore. Ciò
che mi ferirebbe il cuore sarebbe di vederti dubitare di me e mancare di
fiducia.
Voglio che tu pensi a me ogni ora del giorno e della notte; voglio che
tu faccia anche l'azione più insignificante solo per amore. Conto su di
te per darmi gioia …
Non ti preoccupare di non possedere virtù; ti darò le mie.
Quando dovrai soffrire, ti darò la forza. Mi hai dato l'amore, ti darò
di sapere amare al di là di quanto puoi sognare…
Ma
ricordati… amami come sei …
Ti ho dato mia Madre; fa passare, fa passare tutto dal suo cuore così
puro.
Qualunque cosa accada, non aspettare di essere santo per abbandonarti
all'amore, non mi ameresti mai … Va …"
Questa
preghiera sembrava scritta per me e forse lo era, certo era stata
scritta per chi, come me, titubante, si riaccosta a Dio ed ha paura di
non essere accettato perché non si ritiene degno. La lessi tante e tante
volte e mi sembrò un messaggio.
Cominciai a
leggere il Vangelo, non lo avevo mai letto. Le mie conoscenze si erano
fermate alla “Bibbia del bambino”, letta a 10 anni e alla lettura dei
brani evangelici quelle poche volte che ero andata a Messa. Non riuscivo
più a staccarmi da quel libricino, leggevo e poi ritornavo su quel che
avevo letto per capirlo meglio, quanta strada da fare ancora!

(...)
Sentivo
nascere dentro di me una forza nuova, un desiderio infinito di
ringraziare il Signore in modo diverso, di dirglielo più chiaramente di
come facevo nell’intimità della mia anima.
Un giorno a
Favignana, un’isola bellissima nel mare di Sicilia, mi alzai presto per
godere del silenzio e del fresco delle ore mattutine. La casa dove ero
ospite era in una lingua di terra brulla che avanzava nel mare, ai bordi
vi erano scogli pieni di gabbiani giganti che spesso si alzavano in volo
felici. Ad un tratto ne vidi una coppia bellissima che planava
sull’acqua, poi improvvisamente cantando impennò il volo verso l’alto in
una corsa allegra. Sentii la voglia di scrivere, presi un foglio dalla
borsa e con una matita rudimentale scrissi la mia prima poesia che mi
piace riportare qui, s’intitola “Insegnami a volare”.
Insegnami
a volare!
Quando la
tristezza mi assale,
quando la
vita si fa dura,
quando la
realtà mi fa scivolare,
Tu,
prendimi per mano e
insegnami
a volare!
Quando la
pace si allontana,
quando il
gorgo del rumore
risucchia il mio silenzio,
quando
la violenza minaccia il mio cammino,
Tu, con
un colpo d’ale sollevami e,
insegnami a volare!
Coppia
di gabbiani allineati
in un
volo pieno di allegria,
Tu ed
io,
aiutami
a muovere le ali secondo il Tuo disegno,
ti
prego, Gesù,
insegnami a volare!
La rilessi
e mi piacque. Io non avevo mai scritto poesie ma ora le parole si
mettevano insieme da sole ed io provavo una gioia immensa ad accostarle,
ad usarle come pennello per esprimere uno stato d’animo. Dopo questa
poesia ne scrissi tante altre ed ora sono così numerose che potrei
pubblicarne un libro. E’ l’amore per il Signore che ha instillato nel
mio cuore la poesia.

(...)
La mia fede
aumentava, si affinava, la mia vita cambiava, i miei interessi erano
così diversi da quelli di prima, non riuscivo più a frequentare gli
amici di una volta, un giorno parlando con il Signore, come ormai faccio
sempre, gli dissi: “rimarrò senza amici, ma se è questo che tu desideri
non importa”. Per amico ormai avevo Lui, il mio Dio e cominciai con Lui
una corrispondenza, i miei pensieri li mettevo per scritto, così
nacquero “i miei colloqui con il Signore”, li intitolai “parliamo” ed
ora quelle lettere-colloqui sono tante...
Avevo tanto
desiderio di capire, di conoscere meglio Gesù, dovevo recuperare 60 anni
di latitanza. Chiesi alla mia guida di aiutarmi e lui mi consigliò di
leggere “la pace del cuore”, un breve libro che gli era piaciuto tanto.
Questa indicazione mi servì ad aprire un nuovo canale di conoscenza,
andai in internet, cercai un sito su cui ordinare il mio libro e così
facendo scoprii che la figura di Gesù costituisce il best seller
in assoluto nel mondo. I libri che sono stati scritti su di Lui sono
davvero tanti! Ordinai quel libro ed insieme ne ordinai altri, in pochi
giorni i libri arrivavano ed io li divoravo. Più leggevo più capivo le
sfumature del vangelo.
Avevo voglia
di scrivere e la poesia sbocciava spontanea dal mio cuore. Un giorno ero
rattristata e pensavo ai giovani che non sorridono più, che sono stanchi
di vivere, che si drogano e immaginai una scala luminosa, avrei voluto
metterla davanti a loro per insegnare loro il percorso della vita, mi
misi al computer e scrissi questa poesia che poi ho usato come dono ogni
volta che incontro un giovane turbato, s’intitola “Una scala fatta di
luce”.
Ora son
certa, ho avuto una visione,
non so
dirvi l’età forse vent’anni,
i suoi
capelli formavano una cresta
e aveva
un orecchino appeso al naso.
L’aspetto suo era stanco ed annoiato
teneva
gli occhi fissi sui suoi piedi
e ai
piedi calzava scarpe da guerriero.
Io gli
andai incontro tendendogli la mano,
lui mi
lanciò uno sguardo di terrore
“vai
via”, mi disse, “disprezzo quel tuo gesto,
non ho
bisogno certo del tuo aiuto
sparisci e non guardarmi in questo modo,
odio il
tuo mondo dove tutto è buono,
odio la
gente che agisce come te,
mi
parla in maniera sdolcinata
e pensa
di comprarsi il paradiso
sbattendomi in faccia il tuo sorriso”.
“Che ne
sapete voi dei miei problemi?
Delle
speranze e delle delusioni
dei
calci ricevuti e le esclusioni
della
rabbia profonda che ti uccide
che
t’impedisce di credere in te stesso
e ti
domandi che cosa ci stai a fare
in un
mondo che ha chiuse le sue porte
e ti ha
privato della dignità”?
Il
sangue si gelò nelle mie vene
d’un
tratto mi apparve la realtà.
Quanta
miseria e quanta sofferenza,
quanta
tristezza e quanta umanità.
Lessi
il bisogno d’amore in quel rifiuto,
la
voglia di coerenza e di giustizia
ed il
rigetto di ogni falsità.
Fu
allora che la vidi quella luce
spuntava come un fulmine nel buio
ma
invece di svanire in un momento,
prendeva corpo e s’intensificava.
Aveva
le sembianze di una scala,
una
scala poggiata sulla terra
che
saliva, saliva verso il cielo,
superava in altezza le galassie,
sprofondava nel manto delle stelle
e dalla
vista spariva in un puntino
che era
il limite del mondo col principio.
Quante
domande mi vennero alla mente
sarà un
messaggio, un segno del Signore,
una
nuova cometa, un’alleanza,
un
arcobaleno che illumina la notte,
una
promessa, un invito, una speranza!
Ero
stordita, la luce mi abbagliava,
dagli
occhi non vedevo,
volevo
avvicinarmi a quella scala
ma non
riuscivo a muovermi,
i piedi
incollati sulla terra
non
davano più il passo,
provai
a gridare ma non uscì la voce,
provai
a parlare ma non uscì parola,
provai
a pregare
e
qualcosa si mosse in fondo al cuore,
qualcosa si schiarì davanti a me.
Mi
parve un ombra, l’avevo già veduta.
Certo
era un uomo, forse un ragazzo,
aveva
una cresta di capelli sopra il capo,
era di
spalle e il volto mi sfuggiva
ma
quando mosse il passo vidi i suoi piedi
con
scarpe calzate da guerriero.
Si
muoveva spedito, ed avanzava
non
verso me, ma verso quella luce
e con
semplicità pose la mano
sul
legno luminoso che svettava,
prese
lo slancio e salì il gradino:
il
corpo suo fu tutto illuminato.
Andava
piano col passo un poco incerto
ma
procedeva avanti sulla scala,
io lo
seguivo col cuore che pulsava
e dal
mio labbro usciva la preghiera:
aiutalo
a salire mio Signore,
portalo
in alto, non farlo ricadere,
rendi
la mano forte nella presa,
il
passo più sicuro nell’ascesa,
illumina il percorso verso il cielo
e
liberalo da tutti i suoi fardelli.
Ecco
dal cielo piovvero le stelle
erano
tante, erano i dolori,
i torti
sofferti e i suoi rimorsi,
la
voglia d’amare mai esaudita,
la
tenerezza che non aveva avuta,
la
solitudine compagna della vita,
la
gioia repressa mai provata,
il
desiderio della dignità.
Continuavo a seguirlo nell’ascesa,
il suo
passo all’inizio faticava
ma poi
si sciolse, divenne disinvolto:
i
gradini saliva ad uno ad uno
con
leggerezza e con tranquillità.
Lo vidi
arrivare tra le stelle
e si
stagliava nitido nel cielo,
finché
divenne un punto luminoso,
appeso
tra il confine e l’infinito,
un
punto che brillava come un faro.
Il
corpo mio si sciolse dal torpore,
il
piede mio riprese a camminare,
sapevo
che quell’uomo nella luce
si era
ripreso la sua dignità.

(...)
il
sentimento che nutrivo per Gesù stava diventato immenso. Un giorno gli
feci una vera e propria dichiarazione d’amore in versi, gli scrissi la
poesia che s’intitola “Il Tuo volto”.
Voglio adorarti
e immaginare il volto
che Ti
appartenne quando fatto uomo
sei venuto a
vivere tra noi.
Era un volto
sereno e appassionato,
acceso da uno
sguardo luminoso
che sconvolgeva
la vita che guardava.
Un volto
segnato dal dolore,
che sapeva
aprirsi nel sorriso
ed esprimere il
segno del perdono,
che ti fissava
per farti innamorare,
che ti colpiva
diritto dentro al petto
e non potevi
più dimenticare.
Da quante donne
è stato accarezzato
nel segreto più
intimo e nascosto
e quanti uomini
lo hanno contemplato
in un fremito
d’amore mai provato.
Quanti bambini
lo hanno poi sognato
dopo un
abbraccio o dopo una carezza,
quanti potenti
… non lo hanno più scordato.
Il Tuo volto è
qui davanti a me,
se chiudo gli
occhi dilaga nella mente,
quando lavoro
mi turba e mi confonde
e se gli sfuggo
s’insinua nel mio petto
ne blocca i
battiti e scardina il pensiero.
Se Tu mi guardi
un brivido mi
corre per la schiena,
come petali
bianchi si sfogliano le pene,
come venti
domati si placano i dolori,
la gioia si
accende come un sole,
la pace,
scorrendo nelle vene,
mi cura le
ferite e mi consola.
Il tuo sorriso
ridona la parola,
marca, potente,
i modi della vita,
stravolge le
certezze prefissate,
abbatte le
barriere mai varcate,
elimina
distanze sconfinate.
Ora il tuo
volto lo vedo sulla Croce
ed il tuo capo
mi appare incoronato,
ma tra le spine
fioriscono le gemme
e sopra il
legno si posa la colomba,
e vedo i chiodi
dissolversi in colori:
sono dei fiori,
dei fiori profumati.
Quanta
fragranza emanano i pistilli!
Quanta bellezza
s’irradia dalla Croce!
E quanta luce!
E’ un fiume che
m’invade,
che scroscia
dalla roccia e mi accarezza,
mi entra
nell’anima per portarvi la vita,
dilaga nel
sangue per irrorare il cuore,
s’insinua
profondo per insegnarmi ad essere,
mi avvolge in
un abbraccio e mi rincuora.
Col dono del
perdono sconvolge l’esistenza,
mi fa spiccare
il volo,
mi libera
nell’aria
e dalle cime in
alto
mi fa vedere il
mondo con tutti i
suoi problemi,
con tutte le
sue pene che perdono valore,
con tutte le
miserie che appaiono lontane,
con tutte le
paure che non comprendo più.
Sorrido e
sorridendo
volgo lo
sguardo verso quella luce,
pian piano mi
avvicino
e in uno
slancio tendo verso di lei le mani giunte,
poi prendo
forza e vinta dall’amore apro le braccia
e me la stringo
al cuore la Tua Croce.

(...)
Pensai al
significato profondo della parola “miracolo”, meraviglia, straordinario
e mi chiedevo quale potesse essere l’avvenimento più straordinario se
non quello che avviene dentro di noi. Il miracolo più grande è il
cambiamento del cuore che si apre all’amore perché solo così può
conoscere Dio che è l’essenza pura dell’amore. Le parole della mia guida
mi risuonavano chiare e si erano radicate in me: “Dio è padre, vi ama e
questo Padre vi sta sempre accanto, non vi chiede cose eclatanti, azioni
straordinarie, sacrifici, vi chiede di riconoscerlo e amarlo nella
quotidianità, nelle piccole azioni della vostra giornata, nel sorriso
che rivolgete a chi vi passa accanto, nel modo in cui amate i vostri
familiari o svolgete il vostro lavoro. Non dite mai che non vi sentite
degni del Suo amore, non c’è dolore più grande che voi possiate dargli,
siete figli suoi, vi ha fatto a Sua immagine e somiglianza e quale padre
può pensare che il figlio non sia degno del suo amore”?
Con
queste certezze nel cuore mi preparavo a “festeggiare” il mio primo
compleanno.

(...)
Dire che
ormai volavo può sembrare esagerato a chi non riceve il dono delle ali.
A me il Signore le aveva date, erano delle ali piccole ma potevo volare.
Pensando a questo dono volevo ringraziarlo e immaginai che forse il mio
volo assomigliasse a quello di una piccola, bella farfalla variopinta
che sale verso il cielo, volteggia e poi ritorna in terra. Così scrissi
una piccola lirica delicata, s’intitola: “Ali di farfalla”.
Fammi
volare con ali di farfalla
per
scoprire l’essenza del creato,
voglio
posarmi sul nettare dei fiori
dove hai
lasciato un’ orma di dolcezza,
voglio
sfiorare i bordi dei ruscelli
e sulle
acque scoprire il Tuo riflesso,
voglio
imitare la voce degli uccelli
per
confidarti la gioia di pregare,
voglio
tracciare girandole nel cielo,
corse e
ritorni, volteggi in libertà,
poi
ritrovarti in terra
tra le
cose che mi hai donate
ed
abbracciarti, con la mia umanità.

(...)
Un giorno,
di recente, dal mare di Sicilia, ricordando il mio percorso bello,
sentendo la gioia soffocarmi ho cominciato a ringraziare Dio. L’ho
ringraziato per tutto quello che dona agli uomini, per quei colori di
cui ha tinto il mare, per quei misteri di cui ha impregnato il cielo,
per il suo amore che respiriamo nell’aria piena di salsedine, i versi si
sono formati da soli nel mio cuore, si sono aperti liberi come la
corolla di un fiore e appena tornata a riva li ho riportati su carta, ne
è uscito un
inno alla vita.
Pennellate di bianco, sfumature di viola,
verdi
che volgono al turchese
e
nascondono i blu dell’onda che s’increspa,
maglie
dorate ricamate dai raggi del sole sul fondale,
monti
che si elevano al cielo selvaggi e brulli
colorati di ocra e di nocciola,
abbraccio di un azzurro assurdo
fatto
di luce intensa
che
penetra nella linfa del corpo
e ne
scolora il sangue.
Io
sono immersa nella liquidità di questo cielo
e
scorgo il calore della Tua presenza,
sento
la brezza fresca del Tuo respiro che m’inebria
e,
come il sole fa nascere la vita,
così
il Tuo alito mi ridesta all’amore!
Dio
mio, ti ho scorto mentre volavi basso,
quasi
a toccare l’onda e mi sfioravi il capo,
le Tue
ali grandi erano aperte e fendevano l’aria,
avevi
l’aspetto di un gabbiano, grande, possente
che
riempiva di sé tutto lo spazio
ed io
ho sentito esplodere la vita,
cantare il mondo, danzare intorno a me tutte le cose
e ti
ho chiamato, ho gridato il Tuo nome,
ti ho
urlato il mio bisogno di volare,
la
smania di accoglierti nel cuore,
la
voglia immensa di lasciarmi andare
e
languire d’amore accanto a te!
(...)

(...)
Era un giorno come tanti altri ed io mi trovavo a Fregene ospite di mia
figlia, ero lì con mio marito per passare due giorni. La mattina presto
mi venne il desiderio di preparare la colazione e poi mettermi in
giardino a leggere un bel libro, ma non trovai il caffè. Lo cercai da
per tutto e non sapevo che mia figlia aveva l’abitudine di conservare il
caffè nel frigorifero! Così per fare una cosa gradita a lei e a mio
marito (sono anni che io non bevo più caffè!) pensai di andarlo a
comprare, erano le 8 di mattina. Chiesi a mio marito se desiderasse il
giornale e, cantando, con il cuore leggero e la mente ricolma di
pensieri belli, mi misi in macchina sostando nella strada principale per
acquistare un quotidiano.
Lasciai la macchina accanto al marciapiede e scesi davanti al
giornalaio, non c’era nessuno per la strada. Dopo due minuti, tornata
alla vettura, vidi che un autobus blu della linea COTRAL aveva
effettuata la fermata nell’area a lui riservata, ad alcuni metri dietro
la mia vettura (otto per l’esattezza), e stava facendo scendere i
passeggeri. Contenta di essere già davanti alla mia macchina in tempo
utile per entrarvi e liberare la strada al percorso del pullman, levai
l’allarme. Con sorpresa, mi accorsi che l’autobus non mi dava il tempo
di entrare nella macchina perché, con mossa repentina, aveva iniziata
una manovra per superare la mia vettura ferma con me a lato. Disposi il
mio dorso subito contro la portiera della mia macchina per sicurezza, ma
mi resi conto che il pullman mi si stava avvicinando troppo e la sua
coda sarebbe stato in breve a pochi centimetri da me. Spinsi il mio
dorso con tutta la forza contro la portiera che, nell’impatto, rientrò
vistosamente stampando su di essa la sagoma della mia figura. Capii che
lo spazio vitale che l’autobus mi lasciava era troppo esiguo per non
essere schiacciata. Non ebbi paura, ero tropo frastornata. Nello stesso
istante, sentii una forza strana che imprimeva alla mia gamba sinistra
una energia tanto forte da farla saltare ripetutamente in aria,
l’impulso che esercitava sul mio piede era incontrollabile e non
riuscivo a capire da cosa dipendesse, qui persi l’equilibrio. Non caddi
però di colpo, fui sospinta di lato e depositata sull’asfalto sul fianco
destro con il rallentatore. Mi trovai adagiata sul gomito destro che,
nell’attrito con il manto stradale, si sbucciò lievemente. Capii che la
mia vita era salva, notai che il mio braccio si muoveva senza dolore,
che la mia spalla non era fratturata e che, nella caduta, ero stata
trasportata nella parte in cui il pullman, che avanzava un po’ di
sbieco, era abbastanza lontano dalla mia macchina e non mi avrebbe più
schiacciato. Mentre questi pensieri mi occupavano la mente sentii un
gran dolore al piede destro e mi resi conto che l’autobus si era fermato
su di esso! Cominciai a gridare
aiuto, aiutatemi a
liberare il piede, la ruota si è fermata sul mio piede.
Accorsero delle persone che erano al bar vicino a fare colazione e
suggerirono all’autista la manovra da fare per liberarmi il piede. Il
pullman avanzò, mi schiacciò il resto del piede e, con terrore, mi
accorsi che, così facendo, stava salendo sopra l’altro piede, urlai:
“L’altro piede, mi sta arrotando l’altro piede, fermatelo!”. Un angelo,
che vorrei conoscere per ringraziarlo, mi prese per le ascelle, mi
scosse su e giù in modo che il piede sinistro si liberasse dalla scarpa
di stoffa, allacciata da un semplice strip adesivo, e il mio piede
sinistro, scalzo e sano, riapparve alla luce ancora attaccato alla
caviglia! La scarpa, però, rimase sotto la ruota dell’autobus che
l’aveva già addentata! Un dolore terribile mi invase, ma non persi la
lucidità. Sentivo in cuore una gratitudine infinita per la vita che il
Signore mi aveva conservato, ma non capivo il perché di quell’incidente
tanto stupido che non aveva ragioni plausibili per essere accaduto.
Guardai l’autista che stava fermo in silenzio, ad alcuni metri di
distanza, senza rivolgermi uno sguardo, una parola di scusa o di
solidarietà. Gli domandai se nel suo petto battesse un cuore, se
l’altro
per lui fosse trasparente e se avesse mai sentito parlare d’amore e di
fraternità. Per tutta risposta mi disse che non aveva potuto fare una
manovra più ampia perché nell’altra corsia vi erano delle macchine
posteggiate. Nel mio cuore non vi trovai astio verso di lui, pregai il
Signore di perdonarlo e intenerirgli il cuore che sembrava di pietra.
In un attimo, che mi sembrò eterno, passai in rassegna tutta la mia vita
e mi resi conto che avevo perso la libertà, che tutto sarebbe cambiato e
che non avrei più potuto, per lungo tempo, partecipare alla Messa di
Renzo e pascermi del Vangelo attraverso la sua parola; pensai ai miei
nipotini che non avrei più potuto accudire come desideravo; mi si
affollarono alla mente tutti i problemi vitali legati a quell’incidente,
tra i primi quello enorme di mio marito malato. Forse non avrei più
camminato... tutte le attività che riempivano la mia vita sarebbero
state sospese! Sentii una stretta al cuore e la offrii al mio Dio perché
fosse fatta la Sua volontà su di me e, dal mio dolore, dalla mia
rinunzia, nascessero dei frutti d’amore.
Chiamai i miei familiari con il telefonino e lanciai uno sguardo al
piede: tutte le dita erano state divelte e pendevano scomposte come
soldatini abbattuti sul campo di battaglia, il piede era gonfio e stava
diventando nero, mi misero del ghiaccio ed aspettai l’ambulanza, mentre
la polizia municipale interrogava le persone e scattava fotografie. Le
persone mi guardavano con curiosità, l’autobus si era fermato a solo 15
centimetri dalla mia vettura, era un miracolo che io fossi viva e di
questo mormoravano. Capii che quella forza strana impressa alla mia
gamba sinistra che mi aveva fatto saltare e perdere l’equilibrio era
venuta dal cielo e mi aveva permesso di non essere ridotta in poltiglia.
Promisi al Signore che la somma ricevuta dalla assicurazione l’avrei
adoperata per salvare la vita ai bambini svantaggiati e così ho fatto.
Quando l’ambulanza arrivò, pregai il mio Dio che mi portassero in un
centro capace di darmi l’assistenza necessaria all’emergenza.
(...)

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