Torna

 

 

I Pensieri di Vincenzo Andraous

Non mi reputo uno scrittore né un poeta, credo di avere qualcosa da comunicare, senza alcuna presunzione di insegnare nulla a nessuno, o salvare alcuno dal proprio destino. Raccontarci la nostra storia personale può significare la nascita di una amicizia, di un sentimento gratuito, allora anche la mia storia, la mia gran brutta storia può diventare motivo di riflessione per tentare di intravedere il pericolo dei rischi estremi, in quel mito della trasgressione che spesso diviene devianza…e poi risalire dal baratro diventa difficile.

Vincenzo Andraous è nato a Catania il 28-10-1954,  una figlia Yelenia che definisce la sua rivincita più grande, detenuto nel carcere di Pavia, sposato con Cristina, nonno di Mattia da diciottotto mesi, ristretto da trentadue anni e condannato con istituto di cumulo dal tribunale di Milano all’ergastolo “FINE PENA MAI”.
Da dodici anni usufruisce di permessi premio e lavoro esterno in art. 21, da quattro anni è in regime di  semilibertà svolgendo attività di tutor responsabile Centro Servizi Interni della Comunità  terapeutica “Casa del Giovane “di Pavia.
Per dieci anni è stato uno degli animatori del Collettivo Verde del carcere di Voghera, impegnato in attività sociali e culturali con le televisioni pubbliche e private, con Enti, Scuole, Parrocchie, Università, Associazioni e Movimenti culturali di tutta la penisola.
Circa venti le collaborazioni a tesi di laurea in psicologia, criminologia e sociologia.
E’stato titolare di una rubrica domenicale sul quotidiano Il Giorno “ Il mio canto libero “, lo è tuttora di un’altra rubrica il venerdì sul quotidiano Avvenire  “Primo raggio”,  nonché di alcune rubriche mensili su riviste e giornali, laici e cattolici; altresì su alcuni periodici on line di informazione e letteratura laica, e su periodici cattolici di  vescovadi italiani.
Ha conseguito circa 80 premi letterari.
Ha pubblicato nove libri di poesia, di saggistica sul carcere e la devianza, nonché la propria autobiografia.
“Non mi inganno” edito da Ibiskos di Empoli.
“Per una Principessa in jeans”   edito da Ibiskos di Empoli.
“Samarcanda” edito da Cultura 2000 di Siracusa.
“Avrei voluto sedurre la luna“ edito da Vicolo del Pavone di Piacenza.
“Carcere è società” edito da Vicolo del Pavone di Piacenza.
“Autobiografia di un assassino - dal buio alla rinascita” edito da Liberal di Firenze.
“Oltre il carcere” edito dal Centro Stampa della “Casa del Giovane” di Pavia.
“Un viaggio tra devianza minorile, carcere, comunità “ edito dal Centro Stampa della “Casa del Giovane” di Pavia.
“ Amico fragile “ edito dal Centro Stampa della “Casa del Giovane” di Pavia. 

Per comunicare con l’autore:e-mail   vincenzo.andraous@cdg.it


 

Errori ripetuti Bullismo e tautologie inconcludenti Un essere vivente speciale Imputato Gesù di Nazaret Riconciliazione Un uomo saggio Nel recinto chiuso
Finita la festa
la Croce ci salva sempre
Macerie che ci lasciamo alle spalle Solitudini inconfessabili Grazie Don Franco Trapezzisti di umanità senza rete di sicurezza Natale di trasformazione
Mia figlia non c'è più Morti di serie B Quando la dignità viene dimenticata Neppure come cattivo maestro Rendicontazione I tatuaggi del bullo

 

OLIMPIADI E ERRORI RIPETUTI ALL'INFINITO

Quando il dolore e le sofferenze delle immagini superano l’inganno del più astuto componimento politico, quello è il momento di fare i conti con la realtà, quella più vicina alla verità, perché rivendica una giustizia che non può essere denudata dei principi fondamentali quali pari opportunità e pari dignità, nei riguardi dell’uomo e della stessa umanità.

Nel mondo ci sono ingiustizie e tormenti istituzionalizzati, dimenticanze studiate a tavolino, una degnazione colpevole al punto da apparire normalità, accettabilità, consuetudine.

Eppure di fronte alle sequenze che ci vengono mosse contro, non è possibile fare spallucce.

Un paese enorme la Cina, invadente e invasivo, per la sua potenza economica e militare, per la sua politica unidimensionale che non arretra neppure al bisogno di se stessa in difficoltà.

La Cina e il Tibet, sembra la favola del gigante e la bambina, ma non si tratta di filmografia né di letteratura, è la scena di una violenza ideologica, è aggressione che non conosce ritardo, a scapito di diritti non meglio definiti, e quando questi non sono del tutto condivisi, diventano motivo di contrasto, al punto da annientare popoli e religioni, la stessa capacità di organizzare il convivere umano.

Business e olimpiadi, censura e ciurma che arresta, tortura, uccide, in nome dell’ordine e dello Stato sovrano, di quanti non rispettano le minoranze destinate all’estinzione.

Il Tibet è lì, in tutta la sua pena, perduto e piagato, all’angolo delle coscienze, con il suo dolore e il suo sangue a rivendicarne la storia, calpestata dalla sordità di chi non sa accoglierne i segni della pace e dell’amore.

Olimpiadi e scelta personale di partecipare, obiettare, rinunciare, condizione del cuore, delle gambe, della testa, dei richiami alla fratellanza allargata, delle eguaglianze, delle mani che stringono altre mani.

Olimpiadi e Tibet in fuorigioco, invisibile testimone del bene e del male che fanno la differenza, debbono esser differenza, per tentare di spiegare le dinamiche, evidenti e mal riposte, che producono violenze inenarrabili, parole e gesti investiti malamente per generare altro male.

Olimpiadi e desiderio di competere, gareggiare, primeggiare, voglia di non esserci alla cerimonia di apertura dei giochi, voglia di dire la mia, di dissentire, voglia di esserci e dare il mio contributo per amore della pace, proprio nel momento in cui si sta consumando un martirio.

Quanto tempo dovrà ancora trascorrere prima che gli uomini intelligenti prendano in mano la propria coscienza e spunto dai propri sbagli per costruire un modo più efficace di funzionare in futuro.

Queste Olimpiadi dovrebbero indurre gli uomini a essere meno arroganti, a percepire il fremito degli atleti che daranno il massimo per vincere non solo una medaglia, non solo un applauso, questi giochi  stellari non saranno terreno fertile né facile per chi non si mostra capace di riflessione, riempiendo stoltamente il proprio vivere degli stessi errori ripetuti all’infinito.

UN UOMO SAGGIO

Don Franco se ne va, lascia la Comunità Casa del Giovane, va a fare il parroco.

Emanazione di don Enzo Boschetti, il fondatore di questa grande casa, Don Franco va a formare sempre nuove e mature personalità, come prosecutore di una profezia d’amore.

Tra i fogli sparsi sulla mia scrivania ho trovato sottolineata una frase: un uomo saggio crea più occasioni di quante ne trova.

Questo mi fa pensare a quegli uomini che molto hanno fatto, continuano a fare, facendolo bene, soprattutto per quanti sono ultimi e affaticati della loro vita, spesso avendone sprecato il meglio.

Una persona rivolge lo sguardo al cielo, riconosce le sembianze di Dio, senza averlo mai visto, ne percepisce il calore, la prossimità, la forza con cui indica la strada da percorrere ai ciechi, agli ottusi e ai conclusi.

Ogni giorno incontro sul mio cammino incognite e false certezze,  brandelli di me stesso in rettangoli dove confrontare le mie trepide attese, in un tempo necessario a scoprire un compagno di viaggio importante, in un tragitto iniziato insieme, un pezzo di strada percorso con i palmi delle mani a sfiorarsi.

Servire il fratello non è solo uno slogan, è di più, resiste alle intemperie umane confidando in  questa premessa-promessa di amore e di fiducia.

Se è vero che Dio si mostra in tante maniere, molteplici domande, è anche più vero che è possibile scoprirne la presenza in tante facce, orme digitali indelebili, lasciate qua e là, pezzi di storia che ci consentono di sopravvivere a esperienze quasi mortali, a dolori molto più seri delle tante parole spese male.

Segni e suoni di Fede, dentro la forza di un uomo che ha attraversato la mia strada, mi ha condotto alla sua grande casa, insegnandomi che per rispettare gli altri, occorre dapprima rispettare se stessi, nel volersi un po’ più bene.

Quando ho conosciuto quest’uomo, non sapevo nulla dell’importanza del contatto degli occhi e della direzione dello sguardo, non sapevo neppure dell’importanza di un’amicizia senza calcolo d’accatto, che offre respiro a una esistenza costretta ai ceppi, un’amicizia ben oltre la  condanna.

Se penso al mio amico che sfreccia con la sua bicicletta per le strutture della Casa del Giovane, per le strade della città,  mi rendo conto che gli devo molto, non solamente perché mi aiuta a credere con fede attiva, infatti vedendo lui, comprendo che Altro lo spinge avanti, a intuire, a creare, a fare bene, dentro il bene che c’è negli altri.

Se fossi capace anche solo per un momento di imitare don Franco, di certo potrei riconoscermi come il più vero dei rivoluzionari, quello che sà parlare al cuore  e alla mente degli uomini, al punto da fare rinnegare gli anni passati a usare il fratello come uno sgabello ai propri piedi.

Tanto tempo fa scrissi sul muro di una cella che Dio era morto proprio lì dentro, poi su un foglio bianco, senza più panico e ricatto, scrissi della riemergenza dagli inveterati luoghi comuni, creati a misura da una ingiustizia ipocritamente senza errore.

Qualcuno mi insegnò una nuova punteggiatura con cui fare i conti, guardare avanti con fede che è speranza, attraverso sensibilità differenti ma con bene impresso il dovere delle responsabilità, intraprese con questo servizio, in risposta alle urgenze dei più diseredati, avendo in ogni frangente come riferimento questa comunità, nella consapevolezza di un  progetto comune,  indipendentemente dalla fede che ognuno professa, per ritrovare equilibrio e un senso da dare alla propria esistenza.

Siamo sempre insieme don Franco.

NEPPURE COME CATTIVO MAESTRO

Sono stato invitato in Università, in quella cattolica, come in quella pubblica, ci sono andato per raccontare il mio passato di cattivo maestro, il mio presente di persona che ha ritrovato un senso.

Sulle pareti della grande aula ho letto scritte che accendono la testa e incamminano il cuore, ho intravisto il carico ereditato nelle parole di uomini che hanno lasciato tracce e orme indelebili, proprio come quelle cadenti da una croce,  non a caso posta a mezz’aria, per aiutarci a tenere alto lo sguardo.

In occasione di quegli incontri mi è stata concessa la possibilità di raccontare attraverso la mia storia personale, il tentativo di sostituire alla parola paura, la parola informazione, e quindi accorciare le distanze nei riguardi di un disagio sociale che non fa sconti a nessuno.

L’Università e le tante anime che dialogano, che convivono insieme, eppure è accaduto che il Papa non sia stato ritenuto un ospite accettabile, un interlocutore autorevole, un degno maestro di vita.

IL PARADOSSO E’ CHE NEPPURE COME CATTIVO MAESTRO E’ STATO FATTO ACCOMODARE.

Sul perché sia potuto accadere ciò, ha poca importanza rilevarlo, risulterebbe un sterile dietrologia, ma fa piangere la Sapienza che chiude i battenti alla propria ragione, le repentine alzate dei ponti levatoi, di feudo in feudo, a disarmare le intuizioni degli uomini equi, in quella tolleranza che è diventata lontananza.

E’ suggestivo come il presente sia parente stretto di ieri, con quelle proteste che non davano libero accesso al diverso, al contrario, all’opposto.

Mentre l’esposizione degli striscioni apostrofavano il dissenso con la sottrazione di un confronto, rendendo difficile sostenere una critica verso il Vaticano, giusta o opinabile che sia, mi è venuto in mente quanto può essere acefalo e irragionevole il potere, soprattutto quando non consente a ciascuno di esprimere la propria opinione.

C’è una sorta di paura in una parte del sistema, come se accettare il diverso, ascoltarne il pensiero della differenza, possa significare rimanerne contaminati, come se quel Papa fosse inteso un qualcosa capace di frantumare una immobilità superata dalla storia, se non già da noi stessi.

Indipendentemente dalla fede che ognuno professa, dalla volontà di esprimere richiami a fratellanze allargate, è fuor di dubbio che occorre ritrovare un senso per evitare la corrosione delle poche certezze rimaste, per non essere complici della scomparsa di relazioni e valori  fondanti.

Qualche tempo addietro pensai che Dio è morto dentro una cella, pensai così per l’accumulo di sofferenza, per il troppo dolore, pensai così senza l’aiuto delle parole, una ubriacatura vuota e piena di silenzi.

Pensai così, senza preoccuparmi dei più giovani, a ciò che viene pagato da chi è più esposto, attraverso le istigazioni, le predazioni, le finte rivoluzioni, dove non esistono esempi, tanto meno parole che arrivano da dietro, dalla memoria che non tradisce mai.

Ma quale esempio è stato dato negando al Papa la prossimità di un ascolto, di un’attenzione, di una riflessione?

Quale esempio relegando lontano una possibilità di ulteriore conoscenza, occasione speciale di confronto per affermare la propria convinzione e consapevolezza, nel rispetto  per se stessi e per l’altro.

In quel rispetto, come prima forma educativa,  che si apprende solo attraverso l’esempio: quello autorevole perché davvero credibile.

LA RENDICONTAZIONE DEI PROPRI TAGLI

 Non sono un giudice, nè una vittima, ma non sono neppure un ipocrita: gli anni trascorsi in carcere, i nuovi gesti, gli atteggiamenti e i comportamenti di tutti i giorni, nel tentativo di svolgere prevenzione e contemporaneamente essere un  uomo migliore, mi costringono a dire qualcosa  sul detenuto che, condannato all’ergastolo, ha ingannato se stesso e quelli  che hanno creduto in lui.

Non conosco la sua storia personale, non esprimerò giudizi, vorrei però dedicargli una riflessione.

Quando l’uomo del reato attraversa il confine che delimita lo spazio dell’uomo della pena, egli non può non fare i conti con una revisione critica del proprio passato-vissuto, non può non sostenere a sguardo in alto, il carico di un mutamento interiore, non può non scegliere l’unica via concessa dalla propria coscienza, una nuova condotta sociale.

Questo è il percorso su cui poggia, per intero, quel patto di lealtà che la collettività ti ha concesso e affidato.

Vorrei aggiungere che altri tre sono i passaggi che conducono a una consapevolezza che non piega di lato: la Solidarietà che hai ricevuto, non può essere quella “ridotta” ai soli buoni sentimenti, ai gesti buonisti, ma quella costruttiva, quella che scarta a priori le attenzioni prettamente accudenti, falsamente protettive, e invece privilegia l’attenzione sensibile, quella  che attraverso sensibilità diverse approda a obiettivi comuni. In questo senso e solo in questo modo la solidarietà ricevuta spinge al cambiamento, all’emancipazione dai recinti di filo spinato che circondano un vissuto profondamente sbagliato.

Se questa è la via maestra, allora è qui che si incontra un’altra compagna di viaggio, la Giustizia, quella che traccia un nuovo punto di partenza per ognuno,  e ci fa muovere e schierarci dalla parte del bene e del finalmente giusto.

In questo viaggio di ritorno lento e sottocarico, accompagnato da solidarietà e giustizia, nel tentativo di riparare al male fatto, trova prossimità il dovere di cittadinanza, per ritornare davvero a fare parte del consorzio civile, per appartenere a qualcosa, alla comunità, alla mia città, con le responsabilità che “insieme” cercano di assolvere ai bisogni dell’altro.

Per ben camminare è necessario sapere rispettare se stessi e convintamene gli altri, con quel rispetto che non è ossequioso, deferente, riverente, assai in uso in certi agglomerati umani del disvalore, quel rispetto che non è possibile insegnare, ma si apprende attraverso l’esempio di quanti, sebbene da posizioni differenti, non si tirano indietro per unire ciò che si è rotto, attraverso quanti con il proprio impegno sottolineano l’equilibrio necessario per una consapevole  rendicontazione  dei propri tagli.

Attraverso quanti innanzi a noi ci accompagnano a ritrovare e ricostruire noi stessi.

MIA FIGLIA NON C'E' PIU'

 “Vince, mia figlia non c’è più”.

Al telefono queste parole risuonano da lontano, come fossero lanciate sotto carico, non sferzano lo spazio, non corrono appresso al tempo, sono parole che giungono incespicando.

Il telefono crea alleanza, non separa, come invece fanno queste parole non più riconoscibili, perché posseggono il suono della smemoratezza, scompaiono i segni, le linee, i numeri dei tanti giorni trascorsi insieme, è l’ammasso dei ricordi, dei sentimenti, della gioia mutata a detriti sparsi qua e là, macerie scomposte sulla miseria umana, che toglie, che accorcia, che non consegna altro sostegno.

“Vince mia figlia non c’è più”, come una spirale che penetra con furore all’orecchio, c’è difficoltà a immaginare, a raccontare, il volto devastato di un padre inchiodato ai legni di questo presente, dove c’è paura di incontrare la pazzia.

I pensieri sbandano, cozzano sulla ragione, forse è un diritto gridare a nostro Dio di tutti i giorni, di quelli belli e di quelli brutti, nostro Dio da quando sono nato, cos’hai fatto di me in questa figlia che non c’è più.

Forse è giusto ritenere furfanti le domande quanto le risposte, pronte e imbellettate, destinate a non resistere al taglio della disperazione.

La morte disorienta come le stagioni che sono state promesse e non sono state mantenute,  senza una riga di scuse, con ritardo mal pagato.

Quando qualcuno lascia la mano stretta alla tua, e le orme scompaiono, è nel dolore che assale l’interrogativo, con quale diritto Dio rende così povero l’uomo, con quale pretesa ridurre a demente il lago, la montagna, il mare, nella famiglia di ieri, nel lutto incomprensibile di oggi.

“Vince mia figlia non c’è più”, con quale diritto Dio prende la mia rosa e  la mette da parte, come può esser giusto l’ingiusto.

In quanti pezzi il cuore può esser spezzato, quanta disperazione può essere umana, quanto amore  c’è nel chiedere conto a Dio di questa fretta che non consente al filo di erba di crescere.

Eppure in quel padre spaccato in due su tutti i ricordi, su tutte le mani tese, c’è Dio, c’è Fede, c’è Speranza, sopra un’abbandono che diventa attesa viva, occorre pregare, e credere che nulla è vano, perdutamente incomprensibile, è necessario pregare per ricordare: “quando sei nato stavi piangendo, e tutti intorno a te sorridevano.

La rosa di lassù, ora, è l’unica che sorride e ognuno intorno piange”.

QUANDO LA DIGNITA’ VIENE DIMENTICATA

Il mercato del delitto non va mai in ferie, le televisioni ci rendono ciechi nella ragione, affidiamo agli occhi il compito di tradurci i messaggi, mentre con il pensiero cerchiamo altre cose da fare, qualche scorciatoia per acquistare al banco dell’usato i soliti giudizi affrettati, persino la vergogna ha il volto tumefatto dalle disattenzioni e gli abbandoni di chi è disperato.

Di fronte alla morte non dovrebbe mai esserci spazio per quel chiacchiericcio che rende la pietà simile a un privilegio, al punto da non scorgere più il dolore per una dignità derubata, calpestata.

Da qualche tempo fanno incetta di audiens i delitti da grande fratello, quei fattacci su cui imbastire programmi televisivi, e perché no, presunte innovazioni giuridico culturali, mentre nella preoccupazione per una prevenzione di facciata, c’è comunque  posto per l’esplicazione reiterata di leggi di emergenza rattoppate a una contemporaneità  malata.

Ci sono persone che muoiono, persone che scompongono il futuro assai incerto, che scompaiono improvvisamente,  persone che lasciano ad altri la possibilità di ritrovare una parvenza di umanità, persino attraverso il tentativo estremo del suicidio.

Ma per queste persone anonime, non esiste spazio di comunicazione, il grande fratello è oltre, non è interessato a questa diaspora esistenziale, dirompente, non solo per i numeri ma per l’incomprensibilità dei tanti suicidi in carcere.

Se la vivibilità è migliorata con il superamento del problema endemico all’Amministrazione Penitenziaria, il sovraffollamento, in carcere si continua a morire a catena, in un silenzio devastante, trattandosi  di  eventi imprevedibili di una normale rottamazione, tutta dentro una sorta di terra di nessuno.

Quali le domande e quali le risposte, senza incorrere nel rischio delle ipocrisie ideologiche, o peggio, una alzata di spalle.

Il carcere e l’indulto, il carcere e le scappatoie giuridiche, il carcere e il suo presunto svuotamento, insomma un carcere che non ha più i SOLITI E FASTIDIOSI problemi che coinvolgono nella sua insopportabilità operatori e detenuti.

Quando muore un delinquente anziano, incallito al cuore, nessuno si preoccupa, quando i morti in rapida successione sono giovani e apparentemente in salute, forse è il caso di essere più attenti, meno assoggettati dall’abitudine alla somma della retorica, per tentare di  costruire più partecipazione da parte di tutti, perché una doverosa esigenza di giustizia appartiene a chi l’offesa l’ha ricevuta, ma anche a chi quell’offesa l’ha arrecata e sconta la propria condanna con dignità.

Forse il problema non sta nei morti di serie a e di serie b, forse c’è in corso una lacerazione lenta ma inesorabile della nostra società, una specie di mutamento piramidale, dall’alto al basso, che investe gli intelletti e logora le coscienze, per cui quel preciso interesse collettivo, recuperare le persone in carcere, renderle cooperanti e consapevoli di una possibile risalita e riscatto, diventa un ideale secondario, rispetto all’impossibilità di ritrovare se stessi e gli altri.

MORTI DI SERIE B

 Ci sono guerre dimenticate, alcune sottilmente retrocesse, altre spettacolarmente pubblicizzate.

Guerre appena fuori l’uscio, ma lontane dalle nostre tavole ben imbandite di sapori e di colori vivaci.

Eppure c’è un’altra guerra con la residenza a fianco della nostra dimora, che deruba vite,  che recide esistenze, che rapina umanità nel silenzio più malato di illegalità.

Morti accatastati uno sull’altro, morti insignificanti di ieri, di oggi e di domani, morti che non parlano, che non possono dettare i tempi alla giustizia disattenta.

Sono morti e basta.

Morti meno importanti di quelli dell’emergenza mafia, terrorismo, criminalità, infatti quelli, sebbene con il ritardo assassino della storia, sono stati morti che hanno imposto il risveglio delle coscienze.

Questi altri invece sono morti che vengono da prima della vittoria su ogni mafia, e  continuano a dispetto di ogni tragedia, di ogni solitudine, soprattutto a causa di ogni smemorata ingiustizia.

Sono i morti che ogni giorno inzuppano di lacrime di coccodrillo i tanti contratti di lavoro fantasma, nei tanti cantieri edili, nei luoghi destinati alla  fatica ma privi di ogni sicurezza.

Sono troppi questi morti che gridano vendetta, lo fanno senza armi, ma con la richiesta feroce di ingerenza umanitaria,  dal momento che quella sindacale rimane inevasa alla coscienza.

Sono questi i morti che indicano una tradizione, diventata infame malcostume, quale accondiscendenza della sciagura già prossima.

Nel bel paese si ode il corpo a corpo  con la mafia, il terrorismo, la politica corrotta, la corruzione capillare, c’è frastuono di colpi, c’è lotta, c’è vita, c’è speranza.

Invece per questi morti senza lode né medaglie scintillanti, c’è a attendere il prossimo sventurato, la postura composta del giuda di turno, di quello e di quell’altro che racconterà una verità disconnessa dall’altra, da quella che è per davvero causa di tante dipartite sconosciute.

Italia, Italia, è sempre Italia,  quella del pallone d’oro mondiale e quella per l’inciucio nazionale, è Italia che si barrica, che si offende, che carica a testa bassa, che marcia per le strade ancor meglio di tanti girotondini, che prende le botte e le restituisce, è Italia che rimbrotta e si intestardisce  per non avere Cannavaro e Zambrotta in serie cadetta, ma non si impunta per l’ennesimo innocente caduto dall’impalcatura perché sprovvisto della necessaria  imbracatura.

C’è chi imputa questa cecità diffusa alla strategia furba e alla pressione opulenta esercitata dagli interessi di categoria, dalle lobby solitamente ignote.

Sono tante le inefficienze, altrettante le inefficaci soluzioni mostrate alla fiera degli stolti, esse inciampano sovente con la disonestà intellettuale  insita nel profitto quale fine, che inventa e costruisce il potere della politica, quella politica che non fa servizio, perché opera per alcuni, e non per tutti, tanto meno per quei morti  in lista di attesa, e comunque tutti finiti in serie B.


I TATUAGGI INVISIBILI DEL BULLO
di Vincenzo Andraous

Sono stato invitato a un incontro con gli alunni delle scuole secondarie di 1° grado, con la presenza degli insegnanti  e di alcuni medici di base.

Ho raccontato la mia adolescenza da bullo, da prevaricatore: un cancellino lanciato alle spalle della maestra, la gomitata sulla testa del compagno più debole, il gioco del capro espiatorio che ingiustamente patisce le pene dell’inferno, e calcio dopo calcio, silenzio dopo silenzio, il gruppo si rafforza, tutti dentro quel territorio ben delimitato.

I ragazzini stanno fermi sulle sedie, ascoltano la mia storia raccontata piano, comprendono che non è quella dei videogames, dei violenti scambiati per eroi,  bensì è la storia della vergogna.

Bulli crescono intorno a una equipe senza tanto tempo a disposizione, attraverso un giudizio espresso senza titolo, con l’impossibilità a leggere più in là di un voto elargito a piene mani.

Prepotenti e sprinter dell’immediato bruciano le tappe nell’indifferenza colpevole, in quel cancellino lanciato, senza il timore del dazio da pagare, perché nessuno parlerà, nella sfida scagliata senza troppi inciampi, tatuaggi invisibili di medaglie guadagnate sul campo, un potere riconosciuto, che assomiglia a una condanna senza appello.

I bulli crescono e gli insegnanti sopravvivono, i genitori  indisturbati sono in gara  per poter vincere il traguardo del benessere, ognuno gioca la propria partita evitando la fatica di un confronto, un comportamento incomprensibile soprattutto da parte di chi è persona pratica della lettura, dell’osservare e ascoltare, di chi  annota, verifica, e elabora strategie, per tentare di sfiorare quelle note nascoste, importanti al punto da rimanerne emozionati.

Adolescenti contaminati si addentrano nella trasgressione, nella devianza, mentre la società si dibatte nelle norme poco condivise, nel rigore e nella severità da usare chiaramente per l’altro, non per il proprio figlio.

Vittime e  carnefici diventano carne da macello, c’è chi muore e c’è chi rimane oltraggiato per l’intera esistenza.

I ragazzi mi guardano, la mia storia li fa preoccupare, perché con le malefatte perpetrate, prima o poi occorrerà farci i conti, nessuno è infallibile, e nessuno può pensare di continuare a fare il furbo impunito a spese del compagno.

L’incontro è con i ragazzi, sono qui per loro, perché non abbiano a fare i miei stessi errori da bullo, ma poi è con chi educa che si protrae la discussione, perché non sapere e quindi non  intervenire, spiana la strada al riconoscimento di un potere vero e proprio del bullo all’interno del gruppo, e peggio dentro l’Istituzione.

Il prepotente che emargina il più debole, che esclude gli altri, che colpisce e infierisce, per guadagnare consenso, non è un problema abortito dalla scuola, ma una lacerazione della relazione, che produce incapacità a convivere, nonché una forzatura al crescere insieme.

E’ davvero necessario che poli convergenti della collettività si incontrino e si confrontino: studenti, insegnanti, genitori, esperti, per far nascere delle idee e aiutare a diventare adulti insieme, ben sapendo, che se uno solo di questi poli sarà messo in “fuorigioco”, l’intero progetto è destinato a fallire.

 

TRAPEZZISTI DI UMANITA’ SENZA RETE DI SICUREZZA
di Vincenzo Andraous

In questi giorni ognuno ha detto, giudicato, assolto e condannato.

Il circo delle giustificazioni da trapezio senza rete di sicurezza ha trasmesso il suo spettacolo migliore, nuovamente l’essere umano è stato dapprima dimezzato, poi gettato via come un  pezzo di carta inservibile.

Mastrogiacomo è stato riportato a casa nostra, e quel che s’è fatto per salvarlo è stato comunque un atto di  giustizia a dir poco dovuto.

Un po’ meno lo è per coloro che  ne hanno condiviso le sofferenze e il sangue e ora sono legati scompostamente al palo con la testa penzoloni.

Si sprecano le manifestazioni, gli slogans e nel frattempo la destra e la sinistra se le danno di santa ragione, colpi portati al basso ventre, dove il calcolo delle percentuali e delle opportunità è gridato come un  risultato calcistico:  1 a 5,  e non basta ancora, troppo caro il prezzo pagato per  uno spazio adibito a mattatoio.

Così mentre gli uomini attendono ordini, Adjmal non è più vivo, diventa parte del prodotto interno lordo per assolvere potenti ignoti, e condannare improvvisati inquisitori: Adjmal non era carne di eccezione, né persona importante da conservare.

E’ facile dimenticare come Mastrogiacomo sia stato preso per i capelli per toglierlo dalla fossa e quanto disperanti siano stati gli sgambetti dei  cultori  del politically correct, per permettere con il  nemico forgiato nell’intolleranza, le trattative intercorse, o più semplicemente l’accettazione di una carità che in guerra è chiamata volgarmente debolezza.

Adjmal è l’altra faccia di una guerra che non consente mediazioni, quella di Mastrogiacomo è stata un’accezione malformata dal ricatto delle bombe, ora il musulmano Adjmal lascia tracce diverse persino nella sabbia, nelle orme estranee che non danno senso alla tragedia che rappresenta e che non colma il furore del ferro e del fuoco, per quella moneta gettata vicino al suo cadavere accartocciato.

I saggi dei diritti umani, dei pari diritti culturali, fortunatamente hanno mostrato sufficiente onestà intellettuale  per credere in una liberazione possibile, quando lo sfinimento della pietà umana colava malamente da ogni bugia eletta a verità armata, eretta a difesa di interessi e scelte che non autorizzano ugualità.

Sorpresa e sgomento per la morte di Adjmal, eppure nella celle di troppe prigioni afghane rimangono alla catena  altri eroi, anonimi, senza abbaglio di riflettori, medaglie, riconoscimenti, in nome di quella solidarietà umana che si ritrae senza la pretesa di qualche anomala confessione…… per tranquillizzare chi si sente innocente di essere colpevole.

 

BULLISMO E TAUTOLOGIE INCONCLUDENTI
di Vincenzo Andraous

Adolescenti come plotoni di esecuzione, pronti a destabilizzare i più deboli, sempre addosso a chi non può reagire.

Bullismo ed eroi di cartone, furbi e codardia sospesa a mezz’aria, una dimensione di imbecillità con  la patente a punti di bravi ragazzi, il tutto ben nascosto dalla viltà del gruppo che opprime il singolo.

Se non ricordo male ai miei tempi, esisteva l’esatto contrario del bullismo attuale,  infatti il disagio aggrediva il singolo, ponendolo solo contro tutti.

Il solitario scopriva gli strumenti della violenza e della diversità, per diventare protagonista, per apparire, nel tentativo di colmare il vuoto in famiglia, la precarietà finanziaria, la mancanza di riferimenti certi, di valori condivisi.

Quel ragazzo scelse la diversità come  propria corazza e propria spada, fino al giorno dell’abbandono della scuola, della famiglia, all’incontro con la strada e con il carcere.

In questo presente c’è una scuola priva di autorevolezza, una scuola e una famiglia prive di allenatori alla vita, perché  dispersi dalla  delegittimazione.

C’è invece un recinto dove incontrarsi per scontrarsi, in preparazione del botto finale da pagare al destino sempre in agguato.

Le teorie si sprecano nei riguardi della trasgressione, della violenza giovanile, del bullismo, un dispendio inusitato di tautologie inconcludenti, di dottrine pedagogiche che adottano l’eteroeducazione invece di una sana autoeducazione, per cui chi sta in cattedra ritiene di educare solamente gli altri, negando la necessità di doversi formare e rinnovare a un nuovo “sentire educativo “.

C’è un disamore adulto, che permette fughe in avanti a quanti pensano di aggiustare la propria personalità inadeguata, con la prepotenza degli atteggiamenti omertosi, che mettono in “sicurezza “ i pochi  “duri”  dell’ultimo banco, dietro ai tanti inconsapevoli complici di molteplici vigliaccate.

Ieri il bullo era l’unico diverso, destinato immediatamente al macero, oggi è divenuto eroe manifesto, non tanto per la sua fisicità, soprattutto per la silenziosa maggioranza all’intorno.

E’ un’anomalia  istituzionale lo spazio in cui il bullo rimane in piedi eretto come un vessillo, mentre la vittima incassa l’ennesima sconfitta in termini di dignità rapinata e giustizia beffata.

In questo mare apparentemente sommerso di contraddizioni, incontro tanti giovani, e rimango stupito, perché sebbene non riesca a individuare bulli, furbi,  né ottusi,  questa  mimetizzazione mi conferma l’urgenza di raccontare la storia di quel bullo di altri tempi, di quel coetaneo che s’è perduto in tragedie irripetibili, perché  viltà non è dignità, e imbecillità  non è  intelligenza.

Diviene davvero un dovere raccontare di quel confine, sì,  sottile,  ma irrinunciabile, che separa sempre una legge di sangue da una legge del cuore, oppure di quanto è difficile essere uomini per saper scegliere, per saper credere negli altri,  per farsi aiutare a diventare architetti di domani.

Noi continuiamo a parlare di bullismo, mai di professori e genitori in disarmo, perché divenuti autorevoli assolutori, ognuno indaffarato a delineare la soglia minima di attenzione, ciascuno a definire bravate le future scivolate.

Forse per arginare lo scempio, non serve assumere toni salvifici, o quel falso interventismo di un momento,  forse per rendere quel ragazzo meno strafottente, occorre trovare il tempo per guardarlo negli occhi, in forza di una autorevolezza riconosciuta, perché guadagnata sul campo, non certamente perché ereditata dalle fatiche e dai sacrifici altrui.

 

IN QUESTE SOLITUDINI INCONFESSABILI 
di Vincenzo Andraous

Donne e bambini al macero, dissacrati, gettati come carta straccia senza provare un fremito di vergogna.

Gli accadimenti tragici di Erba rappresentano i pensieri nascosti, quelli che non si dicono, disegnano i comportamenti rivestiti di indifferenza e imbellettati di rigetti, e quatti quatti gli impulsi sono poi mostrati senza badare troppo al sottile, in una autocelebrazione dell’infamia senza eguali.

Nel sangue innocente che ci sbatte addosso, viene da pensare che stiamo attraversando la fine dei giorni dedicati alla vita. In questo disperante vagabondare tra impossibile e già accaduto, ho ricordato un altro uomo vestito di nero, il peggiore degli assassini, che mi ha raccontato lo sfinimento degli uomini, svelandomi l’insignificanza della vita umana, tutta dentro al proprio delirio di onnipotenza.

Lui conosce bene il freddo di una lama, la premeditazione di uno sparo, il dolore, la tragedia, conosce a fondo l’indicibile, ciò che sta sottotraccia, e non si vede, ma c’è.

L’ho incontrato in questi giorni con ancora negli occhi il rumore sordo del massacro di Erba, mi ha guardato con gli occhi bassi di chi non riesce a spiegarsi quell’odio che nasce e si culla, imperterrito, nella mancanza di elaborazione dell’ira, perché davvero non esiste vendetta che possa nutrirsi con gli occhi sfiniti di un bambino.

Quanto accaduto in quel cortile sconosciuto, non ha orme di follie ereditate, neppure strappi alla conformità che dà sonnolenza, e perciò spaventa, in quella carneficina c’è la spinta a metterci di fronte alla nostra diffidenza nei riguardi di chi non ci è prossimo, perché diverso, magari per il colore della pelle.

Nessuno vede e nessuno sente nulla, questo accade quando il cuore è preso a prestito dalla fatica a sopportare “chi e che cosa”, allora ci sentiamo presi dentro a una inondazione anomala, quale parte di una umanità lontana, ma improvvisamente presente, come un corpo a corpo a sbarrarci il passo.

Si, io conosco il peggiore degli uomini, mi ha raccontato il rumore del taglio, il fragore dello sparo, lo scavo di ogni lamento, e l’insopportabilità delle preghiere.

Infine mi ha raccontato che non è la pistola a fare di un rapinatore un uomo.

Mi chiedo quale personalità, quale coscienza, albergano in quei due armati di coltello e spranga, entrambi protesi a rubare vite non ancora sedimentate.

Quanta rabbia incontenibile in quelle dita strette a pugno, rabbia sottopelle, rabbia ben nascosta alla superficie, rabbia nella malattia dei deserti, che striscia dalle periferie esistenziali delle solitudini inconfessabili, rabbia disposta a misura, più in là del desiderio di un bimbo che non arriva, assai più in là,  tra gli iracondi ossessionati dalle proprie rese alle diversità all’intorno, intenti a creare l’appagamento ingannevole della morte.

 

NATALE  DI TRASFORMAZIONE 
di Vincenzo Andraous

Persino il generale inverno delle nostre interiorità piega di lato, quando inizia il conto alla rovescia per Natale, senza più la maschera del tempo, il cielo si abbassa a sfiorare orme indelebili, nella speranza di una Festività finalmente normale, non perché mediocre o banale, ma perché avvento di Giustizia e Compassione.

Natale non conosce barriere, né ideologie, non consente disattenzione né indifferenza, non è un momento vano  neppure per il più sciocco degli uomini, quello che lo intende per un sol giorno, come una rappresentazione imposta dalla coscienza.

Natale non è catarsi da acquistare al supermercato degli affetti, né emozione costruita in laboratorio, non è veste da indossare in politica, né iconografie digitali per spot multimediali.

Gesù nasce e rimane bambino nella nostra identità flessibile, Egli resta un pargolo, che incredibilmente non riusciamo ad associare a quella sua rivoluzione ancor oggi sinonimo di libertà.

In questa nascita c’è la libertà che consente a ciascuno di noi di chiudere una porta per poi aprire un portone, allontanando utopie travestite di estremismi.

Libertà che non si è spenta neppure nei chiodi piantati nella carne, in una croce che è venuta per nostra scelta. Di scelta si è trattato, scelta che ancora attende parole e gesti compiuti per chiedere perdono, ritrovando senso e coraggio per un Amore che non ha somme da accreditare né divisioni da marcare.

Le domande che assalgono ci fanno riflettere sui grandi misteri: il nostro cuore è aperto per accogliere? Le nostre mani si alzano al cielo con purezza, o cerchiamo solo un rifugio per sopportare le lacerazioni inferte a noi stessi e agli altri?

Forse in quel Bambino che nasce si avvera l’incontro di tutti gli uomini, ognuno con le sue pene, oltre il peso dei macigni che ci portiamo addosso.

Nel Suo volto, che già incarna lo sguardo dell’eternità, ci sono i volti di tutti gli uomini, diversi, lontani, vicini, custodi di vite passate, presenti e future, storie che parlano di ciò che non sappiamo riconoscere e accettare.

Il Bimbo nasce, e la storia è la nostra storia, ci appartiene, ci conduce a cercare una mano da stringere per sempre.

Negli occhi di quel Bimbo c’è la possibilità di una trasformazione che coinvolge l’interezza dell’uomo, un cambiamento altrettanto volontariamente scelto: persino in una prigione, in una cella, in uno spazio separato, può nascere la consapevolezza per accorciare le distanze tra gli uomini, nel superamento della condanna, nelle innumerevoli rese, noi riusciamo a  pensare a Te, che nasci e già ami,  e chiediamo perdono  a te che nasci e muori anche per noi.

 

UN ESSERE VIVENTE SPECIALE
di
Vincenzo Andraous

Me ne sto seduto sul divano a guardare la televisione, mi passano davanti immagini di animali destinati all’estinzione, animali trattati con disattenzione, animali abbandonati sul ciglio della strada.

Un brivido mi scivola giù per la schiena, freddo come la paura causata dall’impotenza, mentre accovacciato tra i miei piedi, il mio cane dorme e non fa caso allo sferragliare dei miei pensieri.

Il mio cane non ha nobili tradizioni da sventolare, nè casate da  tramandare, non è padre altero, nè figlio prediletto, non è il primo della fila, forse è l’ultimo della classe mal raggruppata.

E’ solo un cane a cui è stata tolta a forza la storia di ieri, concedendogli con aristocratica parsimonia la sopravvivenza in un maledetto canile, affinché la memoria gli fosse cancellata tra stenti e abbrutimenti.

Il mio cane è una bandiera che sventola i suoi ciuffi di simpatia a chi gli regala una carezza, non diffida né digrigna i denti quando incontra gli uomini, non ha smania di possesso con i suoi simili, ama i bambini ed i gatti dispersi sulla strada, non ha odio né rancore nello sguardo, neppure desiderio di rinnegare ciò che lo ha attraversato.

Tra le curve della mia ira per chi ha abbandonato una bestia così umana, rimango persino perplesso per la possibilità di scacciare  tanta speranza e fiducia. Ma forse la mia ira è sul serio mal spesa, perché di certo chi l’ha abbandonato è davvero un bastardo, per di più è uno scemo nel non sapere cosa ha perso.

Non so più se è lui il vero trovatello, chi dei due ha trovato l’altro, o chi ha trovato cosa.

Sono sereno nel sentirlo felice, mi sento bene del suo bene, e mi rendo conto che il mio cane non è uno slogan, non è il risultato di un programma ben architettato per indurre a fare accoglienza.

Se ne sta al mio fianco insegnandomi il valore di quell’attenzione sensibile che non è solo la somma egoistica di una attenzione accudente-protettiva, bensì  è attenzione per l’altro che mi cammina accanto, sia esso a due o quattro zampe.

Il mio cane è parte che mancava all’appello nelle mille orme che lascia dietro di sé, mentre poggia il passo sulla mia via.

“Beati gli ultimi perché saranno i primi” ci ha detto Qualcuno qualche secolo fa, allora a ben guardare, il mio cane è  fatto apposta per meritare la mia fiducia, perché non ha dimenticato il senso  del suo esistere quando gli è stata depredata l’identità, e tanto meno oggi che l’ha ritrovata non richiama spiriti di vendetta.

Mi guarda e mi regala una leccata a tutto tondo sulla faccia, perché sa che non sarà mai più un cane perduto senza collare.

 

MACERIE CHE CI LASCIAMO ALLE SPALLE
di Vincenzo Andraous
 

Giovani e adulti, facoltosi e meno abbienti, ognuno a “farsi grande” con l’uso di sostanze stupefacenti.
In questo consumo smodato di illusioni in pillole, non esistono confini sufficienti a identificare le ideologie né le culture.
Eppure non fa difetto l’eredità pesante che ci portiamo addosso, quell’esperienza dolorosa a indicatore di quei giovani che soccombono nella dose quotidiana.

Continuiamo ad azzuffarci per decidere se sia meglio punire o prevenire, o ancora meglio assolvere chi sniffa, chi si buca, chi fuma.
Mentre inarchiamo le sopracciglia per l’ennesimo giovane perduto, noi replichiamo la sconfitta nella prossima legge emanata a furor di popolo, la quale ammalia il voto ghermito a quattro mani,  ma non porta il risultato voluto.
Viviamo questa vita come fossimo “turisti per caso “, camminiamo tra le incertezze che ci colgono, senza preoccuparci delle macerie che ci lasciamo alle spalle.
Nelle scuole i cani poliziotto delineano scenari incredibili, dove gli adolescenti di ieri appaiono improvvisamente travestiti di tanti domani…. nel fumo di una canna.
Nelle discoteche tribù di giovani si muovono nervosamente, imbottiti di energia in polvere, per guarire da fragilità e solitudini.
Nelle fabbriche, nei laboratori, negli uffici, uomini e donne, ben intruppati nella trasgressione, non più visibile come tale,  divenuta piuttosto una dimensione, una sintesi sgangherata, per  tentare di arginare le proprie rese all’efficienza.
Così nelle strade, nei tanti sguardi stanchi, avamposti alla berlina, per calcolo o per inadeguatezza politica, postazioni mobili del dolore, per nascondere la nuova e logora  assunzione di droghe, per una tantum, per tappe intermittenti, solo per qualche volta, per qualche momento…
Chissà forse il volo pindarico causato dalla droga sta davvero a divertimento, a svago, a tendenza che attrae, nulla di più e nulla di meno di un tentennamento della ragione.
Forse è proprio così…perché il nostro è proprio il paese di Pirandello: sappiamo urlare, disperarci, condannare, scrivere a caratteri cubitali che non esiste una droga buona, che ogni droga fa male.
Ma poi quando cala il sipario sulle grandi adunate, sulle tracce lasciate indietro dai nobili ideali, ecco che dal Golgota laico, coloro che vergano le leggi per tutelare l’inalienabile diritto alla vita ( che non può essere interpretato come diritto alla sopravvivenza ), improvvisamente, sconfessando se stessi, indossano il passamontagna per rapinare anonimamente la possibilità di una scelta, soprattutto nei riguardi di chi ancora questa possibilità non possiede, trasformando quello che dovrebbe essere il compito più alto, in un dialogo a senso unico.

 

GRAZIE DON FRANCO  DELLA CASA DEL GIOVANE
di Vincenzo Andraous

Siamo in un’era dove “attenzione sensibile” sta per accudente protettiva, al punto da sfociare in scuse improponibili che divengono illusoriamente pacificanti; in giustificazioni che travestono di comodo ogni scelta e responsabilità, dove la coscienza rappresenta più un’impalcatura teatrale, che il senso che si è chiamati a dare.
Penso a questo nuovo millennio, ai ragazzi che corrono ed ai genitori fermi dagli ambiti premi messi in palio dalla lotteria del benessere.
Intravedo un accompagnamento educativo solo sulla carta, sulle copertine patinate e colorate di internet, che disegnano approcci educativi d’elite, per pochi, mentre i tanti sono costretti ad arrancare.
Stamattina, durante la Santa Messa, ho avuto la fortuna di ascoltare un prete uomo, che non si nasconde nelle “parole valigia “ ( è una sua definizione ), ove tutto sta, sacro e profano, secolarizzazione e Vangelo, misteri vissuti e promesse vane.
L’ho ascoltato con passione parlare dell’inverso diritto che alberga in noi: in noi adulti, che lamentiamo le obliquità del futuro e ci avventuriamo in esso, privi di amore autentico, noi che puntiamo il dito sui giovani che troppo spesso delegano ad altri-noi fatica e impegno.
Quel prete ha citato “l’abisso del doppio pensiero” di Dostoevskij, nel senso che a volte vogliamo fare del bene  e invece facciamo del male involontariamente, coinvolgendo nei nostri inciampi soprattutto i più giovani, proprio coloro che hanno gambe ancora molli per affrontare la maratona della vita.
Educare significa “tirare fuori”, costruire insieme, ma è un’era in cui imperversano paccottiglie di ideali, di idee, di bandiere pedagogiche da consumare celermente, perché non c’è più destino legittimo del fare, ma alienazioni, che non ci consentono di scendere nel profondo di noi stessi, né di osservare l’intorno che respira a nostra misura.
Come predatori mai contenti, disconosciamo gli atti gratuiti, quegli atteggiamenti che non sono figli di un ritorno premeditato. C’è egoismo, poco o tanto, in ciò che svolgiamo nei riguardi di chi ha bisogno di una guida, per riconoscere ruoli e un’identità a venire.
Egoismo, che è richiesta affermata neppure troppo sottovoce, di medagliamenti, di riconoscimenti da parte di chi impone le mani, di chi si ritiene al di sopra dell’errore, come a sfuggire la discesa alla “com-passione”, alla pena del vivere altrui, con la presunzione di poter insegnare a veder le stelle durante un’alluvione di parole spese male.
Forse occorre diventare educatori del terzo millennio, laureati nella pazienza della speranza, che non è pazienza della disperazione…forse occorre avere occhi “tattili”, essere miniera e minatori, per poter vedere nella polvere più nera uno spicchio di cielo.
Quel prete ha chiamato Gesù “servo inutile”, ha chiesto a tutti di diventare servi inutili.
Quello che non si aspetta alcuna ricompensa.

 

IMPUTATO GESU’ DI NAZARET
di Vincenzo Andraous

Padre Giovanni Crisci, un Frate Cappuccino di quelli tosti, perché nati con la terra alle ginocchia, e le parole, quelle nude, intorno alle dita, mi ha fatto dono in questi giorni del libro che ha pubblicato: Imputato Gesù di Nazaret.
Sguardi sulla sua vita religiosa e anche su quell’altra, di uomo di sponda, fede che è  speranza in un  carcere che annaspa nel proprio tempo fermo.
Ci sono righe scritte da autori sconosciuti che non consentono facili rese alla ragione, altre di scrittori famosi che non permettono mediazioni d’accatto alla propria coscienza.
Ci sono pezzi di strada impolverata racchiusi in altre righe, buttate lì, senza alcuna presunzione di colpire al cuore il lettore, eppure risultano righe che non cancellano la memoria per quanto accade, ci accade, intorno, spesso a un palmo dal nostro naso……..senza accorgerci della tragedia che incombe.
In questo suo intercalare tra la parola che è colpa, ma ne trasforma la pena in speranza, Padre Giovanni Crisci non spende tempo a tentare di strattonare risposte comode, a costruire scrigni di certezze, piuttosto egli spinge chi legge a imbattersi in aree problematiche che non sono poi così irrisolvibili, soltanto occorre parlarne in termini diversi, come ad esempio il carcere, la pena, nelle accezioni odierne, che tolgono allenamento alla fatica, quindi a ogni sguardo prospettico, capace di ricostruire percorsi di riconciliazione
In questo volume c’è il cammino di un uomo che non intende dare il fianco alle solitudini imposte dal sapiente in agguato, vi è intatto il coraggio dell’uomo che vive nei sussulti umani dei Vangeli,  con compassione profondamente convissuta.
Egli lo fa trattando il bene e il male con le braccia affondate nel dolore, senza presunzione di salvare alcuno dal proprio destino.
Padre Crisci sobbalza al cospetto dell’imputato Gesù di Nazaret, dei tanti uomini inchiodati alle proprie responsabilità, eppure il suo è uno  sguardo in alto, con gli occhi lucidi di chi crede nella persona che risorge dai detriti delle proprie sconfitte umane.
Egli lo fa spiegandoci che Via Crucis  sta a via della Croce, indicando il cammino percorso dall’imputato Gesù con il legno del patibulum.
C’è in questa passione e in questa preghiera la similitudine con il detenuto, con chi è ristretto e privato della libertà, come Gesù a quel tempo derubato della propria dignità.
Una similitudine con chi è piegato dalla disperazione della colpa, ma nel cammino dell’espiazione ritrova memoria e valore di una ricomposizione necessaria a ogni frattura e lacerazione.
Similitudine con quella via Crucis, perchè consente di rielaborare quanto accaduto, fino a rendere possibile l’incontro con il volto reclinato dell’ innocente.
Ho questo libro tra le mani, “Imputato Gesù di Nazaret” :  in queste pagine non traspare solamente la Fede di chi crede, c’è di più, c’è la possibilità per ogni uomo detenuto di credere con consapevolezza che scelta e responsabilità formano la più alta delle libertà, persino nel baratro di una cella.

 

FINITA LA FESTA LA CROCE CI SALVA SEMPRE
di Vincenzo Andraous

Pasqua è giorno di festa, di vita che sorride, di rinascita e speranza che non muore.
Pasqua è giorno di Gesù, e, di Cristo, tutti i giorni a venire, non solo quelli trascorsi.
Pasqua è giorno della felicità per questa umana soddisfazione di esistere allontanando ogni cultura di segregazione e esclusione, ogni tentativo di alterare la percezione del tempo, dello spazio, delle relazioni, nella preghiera del silenzio.
Pasqua è giorno in cui ognuno sente gratitudine per ciascuno.
Ma è anche memoria di una  storia personale, è coraggio e dignità per ammettere gli errori commessi, è momento di inizio e conclusione per ogni passato che tenta inutilmente di ricomporre la sua trama.
Pasqua sta tutta in quella croce, in quei legni sgangherati e corrosi,  in quella carne dilaniata e in quelle braccia aperte sopra il capo reclino… a soffrire per me, per te, per noi.
Pasqua è osare lo sguardo in alto verso il perdono, sentimento intimo e profondo che denuda il passato di tutte le sue miserie, impresentabilità nelle sue molteplici ottusità e disattenzioni.
Pasqua è onda piena di tutti i colori della vita, è resurrezione così potente da abbattere ogni prevaricazione a morte.
L’uomo che osserva il Cristo inchiodato ascolta il lamento della sofferenza, lo stridore inaccettabile della condanna terrena, percezioni che scivolano sulla pelle, inabissando la follia umana nella nostra coscienza.
Sospesa a mezz’aria, la croce indica le tante tragedie che colgono impreparati, i decenni di colpa a piegare ogni ragione, le catene improvvisate alle abitudini stanche nelle prigionie dell’anima.
Pasqua è riconciliazione, è riparazione, è offerta di riscatto nello stretto di ogni  più remota possibilità,  è slargo prospettico che non ci fa dimenticare quanto è avvenuto per il nostro delirio di onnipotenza  e per la nostra ipocrita capacità di commiserazione.
Pasqua è spinta forte all’attenzione, è fermata che ci chiede senza riserve di credere in noi stessi, attraverso gli altri, quindi a quella Croce viva che ci parla di una fede che non ha sovrappeso di vecchiezza, né una vita sopravvissuta per farne un tempio di esperienze arroccate in posizione di difesa.

Una fede  in grado di sconfiggere la morte,  nelle parole di un reietto “ sono inchiodato al mio destino maledetto come a una croce”, come nel Golgota di Gesù,  nel suo corpo piagato e nella sua parola desolata: mio Dio, perché mi hai abbandonato…….

 

NEL RECINTO CHIUSO
di Vincenzo Andraous

Ancora minori protagonisti di accadimenti delinquenziali.
Giovani, tutti dentro il recinto chiuso delle emozioni, arena eretta a olimpo ove schierare senza alcun collare, limiti e frustrazioni, mancanze e assenze irrappresentabili.
Giovanissimi con lo zainetto a spalla e le cerniere calate in basso, pronti a riempire il fondo di avventure disperanti, di sfide impari all’impazienza.
Studenti di oggi e professionisti di domani, ognuno con il proprio libro aperto sul letto, dimenticato alla pagina relegata a misera giustificazione di stanchezza.
Famiglia, scuola, oratorio, agenzie educative sconfitte dai messaggi mediatici, dalle estetiche dirompenti, dalle tasche vuote da riempire di denaro e piacevoli rese.
Qualche volta occorre ritornare sull’uscio della propria memoria, senza paura di inorridire, rammentare e rileggere e rielaborare con chiarezza cosa è  accaduto in ciascuno di  noi a quell’età, soprattutto cosa è venuto a mancare, inconsapevolmente, magari premeditatamente.
Diluizione energetica è termine scientifico, per addetti ai lavori, insomma, per pochi intimi, eppure dovrebbe diventare dinamica di tutti i giorni, pratica quotidiana, affinché il più difficile dei ragazzi, entri in possesso della chiave di accesso, all’agire con il proprio cuore e l’altrui misura.
Aiutare a portare fuori le parole, aiutare chi trasgredisce o infrange la norma condivisa, a dialogare con il proprio fuoco, con il proprio compagno di viaggio, pancia a terra.
Aiutare il minore significa rimanere in ascolto davvero, silenzio non verbale, sino alla fine dell’incubo, per poi farne traccia di un percorso di risalita, di risposte comprensibili e sensibili, quindi non solo accudenti, ma promotrici di un’attenzione forte a un disagio che è riflettente il nostro disamore a quella cura dovuta ai nostri figli, che ci induce a deresponsabilizzare il nostro ruolo, troppo spesso impegnati a inseguire traguardi ben più gratificanti.
Nel branco che colpisce, c’è il bullo che eccelle, che vince e impara a non fare prigionieri, la violenza è lo strumento di riordino delle idee piegate di lato, per ottenere una sorta di potere contrattuale, rincorso per arginare chi deride, peggio, opprime con l’indifferenza.
Ragazzi difficili con cui però bisogna convivere, ai quali consegniamo dell’idolatria dell’immagine, a grimaldello per ogni difficoltà che si presenti a sbarrare il passo.
Piccoli delinquenti crescono intorno, nonostante i nostri sforzi,  i nostri consigli per gli “ acquisti “ chiaramente disinteressati, soprattutto indicanti una cultura dei bicipiti bulimici.
Ancora pugni nello stomaco al più debole, ancora violenza sulla ragazzina meno arrendevole, ancora disvalori del libero mercato, nuovamente la vita è afferrata come uno scherzo, perché non c’è nulla di buono da aspettarsi dalle proprie capacità. 
Minori a rischio tra trasgressione e devianza, ragazzi a perdere nel mondo degli adulti che perde contatto con la pazienza della speranza, non scommette più sul potenziale dei propri figli, non ne supporta più la crescita, come a voler sottolineare che non tutte le persone sono preziose, ma solo poche hanno contenuti da salvaguardare.
Forse c’è un’altra priorità oltre la risposta penale, forse c’è un’altra esigenza da cogliere, una possibilità per disinnescare le varie esistenze monche, forse c’è l’urgenza di investire nelle proprie energie interiori per tentare interventi efficaci, affinché risulti in “fuori gioco“  la pratica del “ fare da sé fa per tre “, per apprendere invece il valore di una strategia che parta dal rispetto per sé stessi, e giungere alla considerazione e alla fiducia dell’altro.
Di fronte ad azioni criminali, tragedie conflittuali, commesse dalle baby gang, è pericoloso e fuorviante  ritenerle una concausa della corresponsabilità di una società, così per la stessa responsabilità morale che dovrebbe esercitare interventi preventivi mirati.
Forse occorrerebbe imitare lo stile educativo di don Franco Tassone della Comunità Casa del Giovane, il quale come un buon padre, pone domande ai suoi giovani ospiti, piuttosto che impartire ordini disimpegnanti.
Come ho detto poc’anzi, agli studenti di oggi, bisogna credere, appunto per fare uscire i professionisti di domani, e non soltanto per puro interesse collettivo, ma perché se ci  si sente accettati, coinvolti a dare il meglio di sé, non si ha necessità di attirare l’attenzione con gesti eclatanti, destinati alla follia più lucida.

RICONCILIAZIONE
di Vincenzo Andraous

Stavo leggendo alcune dichiarazioni rilasciate a un quotidiano da Monsignor James Schianchi,  affermazioni, a mio avviso, a cui obiettare, dissentire, ma senza per questo sottrarsi dall’effetto di una ulteriore sentenza.
L’insegnante di teologia dell’Università Cattolica ha sottolineato: chi ha commesso un omicidio,  ha solo un modo per riparare, rimanere fuori dalla società.
Di questi giorni è la concessione della grazia a Bompressi, la discussione su quella futura a Sofri, la proposta di amnistia per rendere a misura di uomo le nostre sgangherate e disumane prigioni.
Mentre è di ieri l’onestà intellettuale di Chi non ha creato  rifugi comodi alla propria coerenza, mi riferisco a quel Santo Padre da poco trapassato, fino all’Altro da poco giunto a noi, con identica fraternità e coscienza.
Rimanere fuori dalla società per tutto il tempo a venire?
Rimanerne fuori oltre un trentennio di reclusione scontata malamente, e nonostante un sopraggiunto riesame critico del passato, un mutamento interiore e una nuova condotta sociale?
Rimanerne fuori dimentichi della Costituzione, delle leggi e delle norme vigenti, rimanerne fuori per sempre, ai margini, senza più possibilità di riparare al male fatto?
Non sono sicuro della somma degli errori o della loro detrazione per giungere a questa linea di confine, che dovrebbe demarcare il giusto dall’ingiusto, soprattutto il modo per affrancarsi dal passato non certamente per dimenticarne i pesi che gravano come  macigni.
Rimanere fuori dalla società è l’unica riparazione possibile per il reo?
Nasce il dubbio che si tratti di una confutazione draconiana, una esplicitazione che mostra, senza veli a nascondere, la stanchezza del parlarsi sovente addosso, disimpegnando la riflessione da qualunque soluzione dei problemi endemici della Giustizia.
L’uomo della condanna e l’uomo della pena, gli istituti di riconciliazione per gli uomini nuovi, per coloro che hanno scontato parte della pena, per coloro che hanno ammesso la sconfitta sulle proprie macerie e miserie umane.
Per chi paga il conto alla storia del paese e per chi lo paga nelle tragedie causate agli innocenti, per chi grida la propria innocenza attraverso un silenzio mai verbale.
Riparazione, riconciliazione, sono dimensioni interiori che l’individuo raggiunge a seguito di “un lungo e lento viaggio sottocarico di ritorno”, sono cambiamenti di mentalità e traguardi possibili perché essi stessi albergano sottopelle nella società, attraverso sensibilità differenti, coinvolgendo la collettività stessa nelle sue diverse espressioni, e ciò, dentro e fuori di un carcere, sopra e sotto una doverosa esigenza di giustizia da parte di coloro che hanno subito la tragedia inferta.
 “Liberare i prigionieri “ nell’anno giubilare,
“ Visitare i carcerati “ nel precetto evangelico,
“ E’ venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” nel modello rivoluzionario del Maestro.
Forse queste sono manifestazioni Alte, per chi come me sta piegato alle proprie lentezze, ma possono farci interrogare sull’utilità di una pena che non consente  riscatto, che nega un percorso di vocazione sociale.
Possono farci individuare il rischio insito in una condanna che costringe il detenuto a mantenersi in piedi attraverso il disvalore dell’omertà e della violenza, rigettando nell’oblio la speranza, e possono indurci a intravedere il pericolo di una sua ancor più devastante involuzione.
Quale senso trova una pena che infligge sordamente punizione, ma non riconosce alla sua funzione sociale il valore che sta al di là dell’apparenza, affinché il detenuto ritorni a essere “persona”?

Se è vero che il perdono non si chiede per ottenere sconti di pena, tanto meno lo si invoca per mezzo di una marca da bollo, è pur vero che il perdono è un’esigenza che sale alta, nel momento in cui ognuno, comprende che occorre guardare con occhi e sguardi nuovi, anzitutto dentro se stessi, affinché divenga quotidianità il rispetto per ogni persona, perché  davvero preziosa.