Non mi reputo uno scrittore né un poeta, credo di avere qualcosa da comunicare, senza alcuna presunzione di insegnare nulla a nessuno, o salvare alcuno dal proprio destino. Raccontarci la nostra storia personale può significare la nascita di una amicizia, di un sentimento gratuito, allora anche la mia storia, la mia gran brutta storia può diventare motivo di riflessione per tentare di intravedere il pericolo dei rischi estremi, in quel mito della trasgressione che spesso diviene devianza…e poi risalire dal baratro diventa difficile.
Vincenzo Andraous è nato a Catania il 28-10-1954, una figlia Yelenia
che definisce la sua rivincita più grande, detenuto nel carcere di
Pavia, sposato con Cristina, nonno di Mattia da diciottotto mesi,
ristretto da trentadue anni e condannato con istituto di cumulo dal
tribunale di Milano all’ergastolo “FINE PENA MAI”. Per comunicare con l’autore:e-mail vincenzo.andraous@cdg.it |
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Errori ripetuti | Bullismo e tautologie inconcludenti | Un essere vivente speciale | Imputato Gesù di Nazaret | Riconciliazione | Un uomo saggio | Nel recinto chiuso |
Finita la
festa la Croce ci salva sempre |
Macerie che ci lasciamo alle spalle | Solitudini inconfessabili | Grazie Don Franco | Trapezzisti di umanità senza rete di sicurezza | Natale di trasformazione | |
Mia figlia non c'è più | Morti di serie B | Quando la dignità viene dimenticata | Neppure come cattivo maestro | Rendicontazione | I tatuaggi del bullo | |
OLIMPIADI E ERRORI RIPETUTI ALL'INFINITO Quando il dolore e le sofferenze delle immagini superano l’inganno del più astuto componimento politico, quello è il momento di fare i conti con la realtà, quella più vicina alla verità, perché rivendica una giustizia che non può essere denudata dei principi fondamentali quali pari opportunità e pari dignità, nei riguardi dell’uomo e della stessa umanità. Nel mondo ci sono ingiustizie e tormenti istituzionalizzati, dimenticanze studiate a tavolino, una degnazione colpevole al punto da apparire normalità, accettabilità, consuetudine. Eppure di fronte alle sequenze che ci vengono mosse contro, non è possibile fare spallucce. Un paese enorme la Cina, invadente e invasivo, per la sua potenza economica e militare, per la sua politica unidimensionale che non arretra neppure al bisogno di se stessa in difficoltà. La Cina e il Tibet, sembra la favola del gigante e la bambina, ma non si tratta di filmografia né di letteratura, è la scena di una violenza ideologica, è aggressione che non conosce ritardo, a scapito di diritti non meglio definiti, e quando questi non sono del tutto condivisi, diventano motivo di contrasto, al punto da annientare popoli e religioni, la stessa capacità di organizzare il convivere umano. Business e olimpiadi, censura e ciurma che arresta, tortura, uccide, in nome dell’ordine e dello Stato sovrano, di quanti non rispettano le minoranze destinate all’estinzione. Il Tibet è lì, in tutta la sua pena, perduto e piagato, all’angolo delle coscienze, con il suo dolore e il suo sangue a rivendicarne la storia, calpestata dalla sordità di chi non sa accoglierne i segni della pace e dell’amore. Olimpiadi e scelta personale di partecipare, obiettare, rinunciare, condizione del cuore, delle gambe, della testa, dei richiami alla fratellanza allargata, delle eguaglianze, delle mani che stringono altre mani. Olimpiadi e Tibet in fuorigioco, invisibile testimone del bene e del male che fanno la differenza, debbono esser differenza, per tentare di spiegare le dinamiche, evidenti e mal riposte, che producono violenze inenarrabili, parole e gesti investiti malamente per generare altro male. Olimpiadi e desiderio di competere, gareggiare, primeggiare, voglia di non esserci alla cerimonia di apertura dei giochi, voglia di dire la mia, di dissentire, voglia di esserci e dare il mio contributo per amore della pace, proprio nel momento in cui si sta consumando un martirio. Quanto tempo dovrà ancora trascorrere prima che gli uomini intelligenti prendano in mano la propria coscienza e spunto dai propri sbagli per costruire un modo più efficace di funzionare in futuro. Queste Olimpiadi dovrebbero indurre gli uomini a essere meno arroganti, a percepire il fremito degli atleti che daranno il massimo per vincere non solo una medaglia, non solo un applauso, questi giochi stellari non saranno terreno fertile né facile per chi non si mostra capace di riflessione, riempiendo stoltamente il proprio vivere degli stessi errori ripetuti all’infinito. Don Franco se ne va, lascia la Comunità Casa del Giovane, va a fare il parroco. Emanazione di don Enzo Boschetti, il fondatore di questa grande casa, Don Franco va a formare sempre nuove e mature personalità, come prosecutore di una profezia d’amore. Tra i fogli sparsi sulla mia scrivania ho trovato sottolineata una frase: un uomo saggio crea più occasioni di quante ne trova. Questo mi fa pensare a quegli uomini che molto hanno fatto, continuano a fare, facendolo bene, soprattutto per quanti sono ultimi e affaticati della loro vita, spesso avendone sprecato il meglio. Una persona rivolge lo sguardo al cielo, riconosce le sembianze di Dio, senza averlo mai visto, ne percepisce il calore, la prossimità, la forza con cui indica la strada da percorrere ai ciechi, agli ottusi e ai conclusi. Ogni giorno incontro sul mio cammino incognite e false certezze, brandelli di me stesso in rettangoli dove confrontare le mie trepide attese, in un tempo necessario a scoprire un compagno di viaggio importante, in un tragitto iniziato insieme, un pezzo di strada percorso con i palmi delle mani a sfiorarsi. Servire il fratello non è solo uno slogan, è di più, resiste alle intemperie umane confidando in questa premessa-promessa di amore e di fiducia. Se è vero che Dio si mostra in tante maniere, molteplici domande, è anche più vero che è possibile scoprirne la presenza in tante facce, orme digitali indelebili, lasciate qua e là, pezzi di storia che ci consentono di sopravvivere a esperienze quasi mortali, a dolori molto più seri delle tante parole spese male. Segni e suoni di Fede, dentro la forza di un uomo che ha attraversato la mia strada, mi ha condotto alla sua grande casa, insegnandomi che per rispettare gli altri, occorre dapprima rispettare se stessi, nel volersi un po’ più bene. Quando ho conosciuto quest’uomo, non sapevo nulla dell’importanza del contatto degli occhi e della direzione dello sguardo, non sapevo neppure dell’importanza di un’amicizia senza calcolo d’accatto, che offre respiro a una esistenza costretta ai ceppi, un’amicizia ben oltre la condanna. Se penso al mio amico che sfreccia con la sua bicicletta per le strutture della Casa del Giovane, per le strade della città, mi rendo conto che gli devo molto, non solamente perché mi aiuta a credere con fede attiva, infatti vedendo lui, comprendo che Altro lo spinge avanti, a intuire, a creare, a fare bene, dentro il bene che c’è negli altri. Se fossi capace anche solo per un momento di imitare don Franco, di certo potrei riconoscermi come il più vero dei rivoluzionari, quello che sà parlare al cuore e alla mente degli uomini, al punto da fare rinnegare gli anni passati a usare il fratello come uno sgabello ai propri piedi. Tanto tempo fa scrissi sul muro di una cella che Dio era morto proprio lì dentro, poi su un foglio bianco, senza più panico e ricatto, scrissi della riemergenza dagli inveterati luoghi comuni, creati a misura da una ingiustizia ipocritamente senza errore. Qualcuno mi insegnò una nuova punteggiatura con cui fare i conti, guardare avanti con fede che è speranza, attraverso sensibilità differenti ma con bene impresso il dovere delle responsabilità, intraprese con questo servizio, in risposta alle urgenze dei più diseredati, avendo in ogni frangente come riferimento questa comunità, nella consapevolezza di un progetto comune, indipendentemente dalla fede che ognuno professa, per ritrovare equilibrio e un senso da dare alla propria esistenza. Siamo sempre insieme don Franco. Sono stato invitato in Università, in quella cattolica, come in quella pubblica, ci sono andato per raccontare il mio passato di cattivo maestro, il mio presente di persona che ha ritrovato un senso. Sulle pareti della grande aula ho letto scritte che accendono la testa e incamminano il cuore, ho intravisto il carico ereditato nelle parole di uomini che hanno lasciato tracce e orme indelebili, proprio come quelle cadenti da una croce, non a caso posta a mezz’aria, per aiutarci a tenere alto lo sguardo. In occasione di quegli incontri mi è stata concessa la possibilità di raccontare attraverso la mia storia personale, il tentativo di sostituire alla parola paura, la parola informazione, e quindi accorciare le distanze nei riguardi di un disagio sociale che non fa sconti a nessuno. L’Università e le tante anime che dialogano, che convivono insieme, eppure è accaduto che il Papa non sia stato ritenuto un ospite accettabile, un interlocutore autorevole, un degno maestro di vita. IL PARADOSSO E’ CHE NEPPURE COME CATTIVO MAESTRO E’ STATO FATTO ACCOMODARE. Sul perché sia potuto accadere ciò, ha poca importanza rilevarlo, risulterebbe un sterile dietrologia, ma fa piangere la Sapienza che chiude i battenti alla propria ragione, le repentine alzate dei ponti levatoi, di feudo in feudo, a disarmare le intuizioni degli uomini equi, in quella tolleranza che è diventata lontananza. E’ suggestivo come il presente sia parente stretto di ieri, con quelle proteste che non davano libero accesso al diverso, al contrario, all’opposto. Mentre l’esposizione degli striscioni apostrofavano il dissenso con la sottrazione di un confronto, rendendo difficile sostenere una critica verso il Vaticano, giusta o opinabile che sia, mi è venuto in mente quanto può essere acefalo e irragionevole il potere, soprattutto quando non consente a ciascuno di esprimere la propria opinione. C’è una sorta di paura in una parte del sistema, come se accettare il diverso, ascoltarne il pensiero della differenza, possa significare rimanerne contaminati, come se quel Papa fosse inteso un qualcosa capace di frantumare una immobilità superata dalla storia, se non già da noi stessi. Indipendentemente dalla fede che ognuno professa, dalla volontà di esprimere richiami a fratellanze allargate, è fuor di dubbio che occorre ritrovare un senso per evitare la corrosione delle poche certezze rimaste, per non essere complici della scomparsa di relazioni e valori fondanti. Qualche tempo addietro pensai che Dio è morto dentro una cella, pensai così per l’accumulo di sofferenza, per il troppo dolore, pensai così senza l’aiuto delle parole, una ubriacatura vuota e piena di silenzi. Pensai così, senza preoccuparmi dei più giovani, a ciò che viene pagato da chi è più esposto, attraverso le istigazioni, le predazioni, le finte rivoluzioni, dove non esistono esempi, tanto meno parole che arrivano da dietro, dalla memoria che non tradisce mai. Ma quale esempio è stato dato negando al Papa la prossimità di un ascolto, di un’attenzione, di una riflessione? Quale esempio relegando lontano una possibilità di ulteriore conoscenza, occasione speciale di confronto per affermare la propria convinzione e consapevolezza, nel rispetto per se stessi e per l’altro. In quel rispetto, come prima forma educativa, che si apprende solo attraverso l’esempio: quello autorevole perché davvero credibile. LA RENDICONTAZIONE DEI PROPRI TAGLI Non sono un giudice, nè una vittima, ma non sono neppure un ipocrita: gli anni trascorsi in carcere, i nuovi gesti, gli atteggiamenti e i comportamenti di tutti i giorni, nel tentativo di svolgere prevenzione e contemporaneamente essere un uomo migliore, mi costringono a dire qualcosa sul detenuto che, condannato all’ergastolo, ha ingannato se stesso e quelli che hanno creduto in lui. Non conosco la sua storia personale, non esprimerò giudizi, vorrei però dedicargli una riflessione. Quando l’uomo del reato attraversa il confine che delimita lo spazio dell’uomo della pena, egli non può non fare i conti con una revisione critica del proprio passato-vissuto, non può non sostenere a sguardo in alto, il carico di un mutamento interiore, non può non scegliere l’unica via concessa dalla propria coscienza, una nuova condotta sociale. Questo è il percorso su cui poggia, per intero, quel patto di lealtà che la collettività ti ha concesso e affidato. Vorrei aggiungere che altri tre sono i passaggi che conducono a una consapevolezza che non piega di lato: la Solidarietà che hai ricevuto, non può essere quella “ridotta” ai soli buoni sentimenti, ai gesti buonisti, ma quella costruttiva, quella che scarta a priori le attenzioni prettamente accudenti, falsamente protettive, e invece privilegia l’attenzione sensibile, quella che attraverso sensibilità diverse approda a obiettivi comuni. In questo senso e solo in questo modo la solidarietà ricevuta spinge al cambiamento, all’emancipazione dai recinti di filo spinato che circondano un vissuto profondamente sbagliato. Se questa è la via maestra, allora è qui che si incontra un’altra compagna di viaggio, la Giustizia, quella che traccia un nuovo punto di partenza per ognuno, e ci fa muovere e schierarci dalla parte del bene e del finalmente giusto. In questo viaggio di ritorno lento e sottocarico, accompagnato da solidarietà e giustizia, nel tentativo di riparare al male fatto, trova prossimità il dovere di cittadinanza, per ritornare davvero a fare parte del consorzio civile, per appartenere a qualcosa, alla comunità, alla mia città, con le responsabilità che “insieme” cercano di assolvere ai bisogni dell’altro. Per ben camminare è necessario sapere rispettare se stessi e convintamene gli altri, con quel rispetto che non è ossequioso, deferente, riverente, assai in uso in certi agglomerati umani del disvalore, quel rispetto che non è possibile insegnare, ma si apprende attraverso l’esempio di quanti, sebbene da posizioni differenti, non si tirano indietro per unire ciò che si è rotto, attraverso quanti con il proprio impegno sottolineano l’equilibrio necessario per una consapevole rendicontazione dei propri tagli. Attraverso quanti innanzi a noi ci accompagnano a ritrovare e ricostruire noi stessi. “Vince, mia figlia non c’è più”. Al telefono queste parole risuonano da lontano, come fossero lanciate sotto carico, non sferzano lo spazio, non corrono appresso al tempo, sono parole che giungono incespicando. Il telefono crea alleanza, non separa, come invece fanno queste parole non più riconoscibili, perché posseggono il suono della smemoratezza, scompaiono i segni, le linee, i numeri dei tanti giorni trascorsi insieme, è l’ammasso dei ricordi, dei sentimenti, della gioia mutata a detriti sparsi qua e là, macerie scomposte sulla miseria umana, che toglie, che accorcia, che non consegna altro sostegno. “Vince mia figlia non c’è più”, come una spirale che penetra con furore all’orecchio, c’è difficoltà a immaginare, a raccontare, il volto devastato di un padre inchiodato ai legni di questo presente, dove c’è paura di incontrare la pazzia. I pensieri sbandano, cozzano sulla ragione, forse è un diritto gridare a nostro Dio di tutti i giorni, di quelli belli e di quelli brutti, nostro Dio da quando sono nato, cos’hai fatto di me in questa figlia che non c’è più. Forse è giusto ritenere furfanti le domande quanto le risposte, pronte e imbellettate, destinate a non resistere al taglio della disperazione. La morte disorienta come le stagioni che sono state promesse e non sono state mantenute, senza una riga di scuse, con ritardo mal pagato. Quando qualcuno lascia la mano stretta alla tua, e le orme scompaiono, è nel dolore che assale l’interrogativo, con quale diritto Dio rende così povero l’uomo, con quale pretesa ridurre a demente il lago, la montagna, il mare, nella famiglia di ieri, nel lutto incomprensibile di oggi. “Vince mia figlia non c’è più”, con quale diritto Dio prende la mia rosa e la mette da parte, come può esser giusto l’ingiusto. In quanti pezzi il cuore può esser spezzato, quanta disperazione può essere umana, quanto amore c’è nel chiedere conto a Dio di questa fretta che non consente al filo di erba di crescere. Eppure in quel padre spaccato in due su tutti i ricordi, su tutte le mani tese, c’è Dio, c’è Fede, c’è Speranza, sopra un’abbandono che diventa attesa viva, occorre pregare, e credere che nulla è vano, perdutamente incomprensibile, è necessario pregare per ricordare: “quando sei nato stavi piangendo, e tutti intorno a te sorridevano. La rosa di lassù, ora, è l’unica che sorride e ognuno intorno piange”. |
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QUANDO LA DIGNITA’ VIENE DIMENTICATA Il mercato del delitto non va mai in ferie, le televisioni ci rendono ciechi nella ragione, affidiamo agli occhi il compito di tradurci i messaggi, mentre con il pensiero cerchiamo altre cose da fare, qualche scorciatoia per acquistare al banco dell’usato i soliti giudizi affrettati, persino la vergogna ha il volto tumefatto dalle disattenzioni e gli abbandoni di chi è disperato. Di fronte alla morte non dovrebbe mai esserci spazio per quel chiacchiericcio che rende la pietà simile a un privilegio, al punto da non scorgere più il dolore per una dignità derubata, calpestata. Da qualche tempo fanno incetta di audiens i delitti da grande fratello, quei fattacci su cui imbastire programmi televisivi, e perché no, presunte innovazioni giuridico culturali, mentre nella preoccupazione per una prevenzione di facciata, c’è comunque posto per l’esplicazione reiterata di leggi di emergenza rattoppate a una contemporaneità malata. Ci sono persone che muoiono, persone che scompongono il futuro assai incerto, che scompaiono improvvisamente, persone che lasciano ad altri la possibilità di ritrovare una parvenza di umanità, persino attraverso il tentativo estremo del suicidio. Ma per queste persone anonime, non esiste spazio di comunicazione, il grande fratello è oltre, non è interessato a questa diaspora esistenziale, dirompente, non solo per i numeri ma per l’incomprensibilità dei tanti suicidi in carcere. Se la vivibilità è migliorata con il superamento del problema endemico all’Amministrazione Penitenziaria, il sovraffollamento, in carcere si continua a morire a catena, in un silenzio devastante, trattandosi di eventi imprevedibili di una normale rottamazione, tutta dentro una sorta di terra di nessuno. Quali le domande e quali le risposte, senza incorrere nel rischio delle ipocrisie ideologiche, o peggio, una alzata di spalle. Il carcere e l’indulto, il carcere e le scappatoie giuridiche, il carcere e il suo presunto svuotamento, insomma un carcere che non ha più i SOLITI E FASTIDIOSI problemi che coinvolgono nella sua insopportabilità operatori e detenuti. Quando muore un delinquente anziano, incallito al cuore, nessuno si preoccupa, quando i morti in rapida successione sono giovani e apparentemente in salute, forse è il caso di essere più attenti, meno assoggettati dall’abitudine alla somma della retorica, per tentare di costruire più partecipazione da parte di tutti, perché una doverosa esigenza di giustizia appartiene a chi l’offesa l’ha ricevuta, ma anche a chi quell’offesa l’ha arrecata e sconta la propria condanna con dignità. Forse il problema non sta nei morti di serie a e di serie b, forse c’è in corso una lacerazione lenta ma inesorabile della nostra società, una specie di mutamento piramidale, dall’alto al basso, che investe gli intelletti e logora le coscienze, per cui quel preciso interesse collettivo, recuperare le persone in carcere, renderle cooperanti e consapevoli di una possibile risalita e riscatto, diventa un ideale secondario, rispetto all’impossibilità di ritrovare se stessi e gli altri. |
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Ci sono guerre dimenticate, alcune sottilmente retrocesse, altre spettacolarmente pubblicizzate. Guerre appena fuori l’uscio, ma lontane dalle nostre tavole ben imbandite di sapori e di colori vivaci. Eppure c’è un’altra guerra con la residenza a fianco della nostra dimora, che deruba vite, che recide esistenze, che rapina umanità nel silenzio più malato di illegalità. Morti accatastati uno sull’altro, morti insignificanti di ieri, di oggi e di domani, morti che non parlano, che non possono dettare i tempi alla giustizia disattenta. Sono morti e basta. Morti meno importanti di quelli dell’emergenza mafia, terrorismo, criminalità, infatti quelli, sebbene con il ritardo assassino della storia, sono stati morti che hanno imposto il risveglio delle coscienze. Questi altri invece sono morti che vengono da prima della vittoria su ogni mafia, e continuano a dispetto di ogni tragedia, di ogni solitudine, soprattutto a causa di ogni smemorata ingiustizia. Sono i morti che ogni giorno inzuppano di lacrime di coccodrillo i tanti contratti di lavoro fantasma, nei tanti cantieri edili, nei luoghi destinati alla fatica ma privi di ogni sicurezza. Sono troppi questi morti che gridano vendetta, lo fanno senza armi, ma con la richiesta feroce di ingerenza umanitaria, dal momento che quella sindacale rimane inevasa alla coscienza. Sono questi i morti che indicano una tradizione, diventata infame malcostume, quale accondiscendenza della sciagura già prossima. Nel bel paese si ode il corpo a corpo con la mafia, il terrorismo, la politica corrotta, la corruzione capillare, c’è frastuono di colpi, c’è lotta, c’è vita, c’è speranza. Invece per questi morti senza lode né medaglie scintillanti, c’è a attendere il prossimo sventurato, la postura composta del giuda di turno, di quello e di quell’altro che racconterà una verità disconnessa dall’altra, da quella che è per davvero causa di tante dipartite sconosciute. Italia, Italia, è sempre Italia, quella del pallone d’oro mondiale e quella per l’inciucio nazionale, è Italia che si barrica, che si offende, che carica a testa bassa, che marcia per le strade ancor meglio di tanti girotondini, che prende le botte e le restituisce, è Italia che rimbrotta e si intestardisce per non avere Cannavaro e Zambrotta in serie cadetta, ma non si impunta per l’ennesimo innocente caduto dall’impalcatura perché sprovvisto della necessaria imbracatura. C’è chi imputa questa cecità diffusa alla strategia furba e alla pressione opulenta esercitata dagli interessi di categoria, dalle lobby solitamente ignote. Sono tante le inefficienze, altrettante le inefficaci soluzioni mostrate alla fiera degli stolti, esse inciampano sovente con la disonestà intellettuale insita nel profitto quale fine, che inventa e costruisce il potere della politica, quella politica che non fa servizio, perché opera per alcuni, e non per tutti, tanto meno per quei morti in lista di attesa, e comunque tutti finiti in serie B. |
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Sono stato invitato a un incontro con gli alunni delle scuole secondarie di 1° grado, con la presenza degli insegnanti e di alcuni medici di base. Ho raccontato la mia adolescenza da bullo, da prevaricatore: un cancellino lanciato alle spalle della maestra, la gomitata sulla testa del compagno più debole, il gioco del capro espiatorio che ingiustamente patisce le pene dell’inferno, e calcio dopo calcio, silenzio dopo silenzio, il gruppo si rafforza, tutti dentro quel territorio ben delimitato. I ragazzini stanno fermi sulle sedie, ascoltano la mia storia raccontata piano, comprendono che non è quella dei videogames, dei violenti scambiati per eroi, bensì è la storia della vergogna. Bulli crescono intorno a una equipe senza tanto tempo a disposizione, attraverso un giudizio espresso senza titolo, con l’impossibilità a leggere più in là di un voto elargito a piene mani. Prepotenti e sprinter dell’immediato bruciano le tappe nell’indifferenza colpevole, in quel cancellino lanciato, senza il timore del dazio da pagare, perché nessuno parlerà, nella sfida scagliata senza troppi inciampi, tatuaggi invisibili di medaglie guadagnate sul campo, un potere riconosciuto, che assomiglia a una condanna senza appello. I bulli crescono e gli insegnanti sopravvivono, i genitori indisturbati sono in gara per poter vincere il traguardo del benessere, ognuno gioca la propria partita evitando la fatica di un confronto, un comportamento incomprensibile soprattutto da parte di chi è persona pratica della lettura, dell’osservare e ascoltare, di chi annota, verifica, e elabora strategie, per tentare di sfiorare quelle note nascoste, importanti al punto da rimanerne emozionati. Adolescenti contaminati si addentrano nella trasgressione, nella devianza, mentre la società si dibatte nelle norme poco condivise, nel rigore e nella severità da usare chiaramente per l’altro, non per il proprio figlio. Vittime e carnefici diventano carne da macello, c’è chi muore e c’è chi rimane oltraggiato per l’intera esistenza. I ragazzi mi guardano, la mia storia li fa preoccupare, perché con le malefatte perpetrate, prima o poi occorrerà farci i conti, nessuno è infallibile, e nessuno può pensare di continuare a fare il furbo impunito a spese del compagno. L’incontro è con i ragazzi, sono qui per loro, perché non abbiano a fare i miei stessi errori da bullo, ma poi è con chi educa che si protrae la discussione, perché non sapere e quindi non intervenire, spiana la strada al riconoscimento di un potere vero e proprio del bullo all’interno del gruppo, e peggio dentro l’Istituzione. Il prepotente che emargina il più debole, che esclude gli altri, che colpisce e infierisce, per guadagnare consenso, non è un problema abortito dalla scuola, ma una lacerazione della relazione, che produce incapacità a convivere, nonché una forzatura al crescere insieme. E’ davvero necessario che poli convergenti della collettività si incontrino e si confrontino: studenti, insegnanti, genitori, esperti, per far nascere delle idee e aiutare a diventare adulti insieme, ben sapendo, che se uno solo di questi poli sarà messo in “fuorigioco”, l’intero progetto è destinato a fallire. |
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TRAPEZZISTI DI
UMANITA’ SENZA RETE DI SICUREZZA In questi giorni ognuno ha detto, giudicato, assolto e condannato. Il circo delle giustificazioni da trapezio senza rete di sicurezza ha trasmesso il suo spettacolo migliore, nuovamente l’essere umano è stato dapprima dimezzato, poi gettato via come un pezzo di carta inservibile. Mastrogiacomo è stato riportato a casa nostra, e quel che s’è fatto per salvarlo è stato comunque un atto di giustizia a dir poco dovuto. Un po’ meno lo è per coloro che ne hanno condiviso le sofferenze e il sangue e ora sono legati scompostamente al palo con la testa penzoloni. Si sprecano le manifestazioni, gli slogans e nel frattempo la destra e la sinistra se le danno di santa ragione, colpi portati al basso ventre, dove il calcolo delle percentuali e delle opportunità è gridato come un risultato calcistico: 1 a 5, e non basta ancora, troppo caro il prezzo pagato per uno spazio adibito a mattatoio. Così mentre gli uomini attendono ordini, Adjmal non è più vivo, diventa parte del prodotto interno lordo per assolvere potenti ignoti, e condannare improvvisati inquisitori: Adjmal non era carne di eccezione, né persona importante da conservare. E’ facile dimenticare come Mastrogiacomo sia stato preso per i capelli per toglierlo dalla fossa e quanto disperanti siano stati gli sgambetti dei cultori del politically correct, per permettere con il nemico forgiato nell’intolleranza, le trattative intercorse, o più semplicemente l’accettazione di una carità che in guerra è chiamata volgarmente debolezza. Adjmal è l’altra faccia di una guerra che non consente mediazioni, quella di Mastrogiacomo è stata un’accezione malformata dal ricatto delle bombe, ora il musulmano Adjmal lascia tracce diverse persino nella sabbia, nelle orme estranee che non danno senso alla tragedia che rappresenta e che non colma il furore del ferro e del fuoco, per quella moneta gettata vicino al suo cadavere accartocciato. I saggi dei diritti umani, dei pari diritti culturali, fortunatamente hanno mostrato sufficiente onestà intellettuale per credere in una liberazione possibile, quando lo sfinimento della pietà umana colava malamente da ogni bugia eletta a verità armata, eretta a difesa di interessi e scelte che non autorizzano ugualità. Sorpresa e sgomento per la morte di Adjmal, eppure nella celle di troppe prigioni afghane rimangono alla catena altri eroi, anonimi, senza abbaglio di riflettori, medaglie, riconoscimenti, in nome di quella solidarietà umana che si ritrae senza la pretesa di qualche anomala confessione…… per tranquillizzare chi si sente innocente di essere colpevole. |
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BULLISMO E TAUTOLOGIE
INCONCLUDENTI Adolescenti come plotoni di esecuzione, pronti a destabilizzare i più deboli, sempre addosso a chi non può reagire. Bullismo ed eroi di cartone, furbi e codardia sospesa a mezz’aria, una dimensione di imbecillità con la patente a punti di bravi ragazzi, il tutto ben nascosto dalla viltà del gruppo che opprime il singolo. Se non ricordo male ai miei tempi, esisteva l’esatto contrario del bullismo attuale, infatti il disagio aggrediva il singolo, ponendolo solo contro tutti. Il solitario scopriva gli strumenti della violenza e della diversità, per diventare protagonista, per apparire, nel tentativo di colmare il vuoto in famiglia, la precarietà finanziaria, la mancanza di riferimenti certi, di valori condivisi. Quel ragazzo scelse la diversità come propria corazza e propria spada, fino al giorno dell’abbandono della scuola, della famiglia, all’incontro con la strada e con il carcere. In questo presente c’è una scuola priva di autorevolezza, una scuola e una famiglia prive di allenatori alla vita, perché dispersi dalla delegittimazione. C’è invece un recinto dove incontrarsi per scontrarsi, in preparazione del botto finale da pagare al destino sempre in agguato. Le teorie si sprecano nei riguardi della trasgressione, della violenza giovanile, del bullismo, un dispendio inusitato di tautologie inconcludenti, di dottrine pedagogiche che adottano l’eteroeducazione invece di una sana autoeducazione, per cui chi sta in cattedra ritiene di educare solamente gli altri, negando la necessità di doversi formare e rinnovare a un nuovo “sentire educativo “. C’è un disamore adulto, che permette fughe in avanti a quanti pensano di aggiustare la propria personalità inadeguata, con la prepotenza degli atteggiamenti omertosi, che mettono in “sicurezza “ i pochi “duri” dell’ultimo banco, dietro ai tanti inconsapevoli complici di molteplici vigliaccate. Ieri il bullo era l’unico diverso, destinato immediatamente al macero, oggi è divenuto eroe manifesto, non tanto per la sua fisicità, soprattutto per la silenziosa maggioranza all’intorno. E’ un’anomalia istituzionale lo spazio in cui il bullo rimane in piedi eretto come un vessillo, mentre la vittima incassa l’ennesima sconfitta in termini di dignità rapinata e giustizia beffata. In questo mare apparentemente sommerso di contraddizioni, incontro tanti giovani, e rimango stupito, perché sebbene non riesca a individuare bulli, furbi, né ottusi, questa mimetizzazione mi conferma l’urgenza di raccontare la storia di quel bullo di altri tempi, di quel coetaneo che s’è perduto in tragedie irripetibili, perché viltà non è dignità, e imbecillità non è intelligenza. Diviene davvero un dovere raccontare di quel confine, sì, sottile, ma irrinunciabile, che separa sempre una legge di sangue da una legge del cuore, oppure di quanto è difficile essere uomini per saper scegliere, per saper credere negli altri, per farsi aiutare a diventare architetti di domani. Noi continuiamo a parlare di bullismo, mai di professori e genitori in disarmo, perché divenuti autorevoli assolutori, ognuno indaffarato a delineare la soglia minima di attenzione, ciascuno a definire bravate le future scivolate. Forse per arginare lo scempio, non serve assumere toni salvifici, o quel falso interventismo di un momento, forse per rendere quel ragazzo meno strafottente, occorre trovare il tempo per guardarlo negli occhi, in forza di una autorevolezza riconosciuta, perché guadagnata sul campo, non certamente perché ereditata dalle fatiche e dai sacrifici altrui. |
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IN QUESTE SOLITUDINI
INCONFESSABILI Donne e bambini al macero, dissacrati, gettati come carta straccia senza provare un fremito di vergogna. Gli accadimenti tragici di Erba rappresentano i pensieri nascosti, quelli che non si dicono, disegnano i comportamenti rivestiti di indifferenza e imbellettati di rigetti, e quatti quatti gli impulsi sono poi mostrati senza badare troppo al sottile, in una autocelebrazione dell’infamia senza eguali. Nel sangue innocente che ci sbatte addosso, viene da pensare che stiamo attraversando la fine dei giorni dedicati alla vita. In questo disperante vagabondare tra impossibile e già accaduto, ho ricordato un altro uomo vestito di nero, il peggiore degli assassini, che mi ha raccontato lo sfinimento degli uomini, svelandomi l’insignificanza della vita umana, tutta dentro al proprio delirio di onnipotenza. Lui conosce bene il freddo di una lama, la premeditazione di uno sparo, il dolore, la tragedia, conosce a fondo l’indicibile, ciò che sta sottotraccia, e non si vede, ma c’è. L’ho incontrato in questi giorni con ancora negli occhi il rumore sordo del massacro di Erba, mi ha guardato con gli occhi bassi di chi non riesce a spiegarsi quell’odio che nasce e si culla, imperterrito, nella mancanza di elaborazione dell’ira, perché davvero non esiste vendetta che possa nutrirsi con gli occhi sfiniti di un bambino. Quanto accaduto in quel cortile sconosciuto, non ha orme di follie ereditate, neppure strappi alla conformità che dà sonnolenza, e perciò spaventa, in quella carneficina c’è la spinta a metterci di fronte alla nostra diffidenza nei riguardi di chi non ci è prossimo, perché diverso, magari per il colore della pelle. Nessuno vede e nessuno sente nulla, questo accade quando il cuore è preso a prestito dalla fatica a sopportare “chi e che cosa”, allora ci sentiamo presi dentro a una inondazione anomala, quale parte di una umanità lontana, ma improvvisamente presente, come un corpo a corpo a sbarrarci il passo. Si, io conosco il peggiore degli uomini, mi ha raccontato il rumore del taglio, il fragore dello sparo, lo scavo di ogni lamento, e l’insopportabilità delle preghiere. Infine mi ha raccontato che non è la pistola a fare di un rapinatore un uomo. Mi chiedo quale personalità, quale coscienza, albergano in quei due armati di coltello e spranga, entrambi protesi a rubare vite non ancora sedimentate. Quanta rabbia incontenibile in quelle dita strette a pugno, rabbia sottopelle, rabbia ben nascosta alla superficie, rabbia nella malattia dei deserti, che striscia dalle periferie esistenziali delle solitudini inconfessabili, rabbia disposta a misura, più in là del desiderio di un bimbo che non arriva, assai più in là, tra gli iracondi ossessionati dalle proprie rese alle diversità all’intorno, intenti a creare l’appagamento ingannevole della morte. |
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NATALE DI
TRASFORMAZIONE Persino il generale inverno delle nostre interiorità piega di lato, quando inizia il conto alla rovescia per Natale, senza più la maschera del tempo, il cielo si abbassa a sfiorare orme indelebili, nella speranza di una Festività finalmente normale, non perché mediocre o banale, ma perché avvento di Giustizia e Compassione. Natale non conosce barriere, né ideologie, non consente disattenzione né indifferenza, non è un momento vano neppure per il più sciocco degli uomini, quello che lo intende per un sol giorno, come una rappresentazione imposta dalla coscienza. Natale non è catarsi da acquistare al supermercato degli affetti, né emozione costruita in laboratorio, non è veste da indossare in politica, né iconografie digitali per spot multimediali. Gesù nasce e rimane bambino nella nostra identità flessibile, Egli resta un pargolo, che incredibilmente non riusciamo ad associare a quella sua rivoluzione ancor oggi sinonimo di libertà. In questa nascita c’è la libertà che consente a ciascuno di noi di chiudere una porta per poi aprire un portone, allontanando utopie travestite di estremismi. Libertà che non si è spenta neppure nei chiodi piantati nella carne, in una croce che è venuta per nostra scelta. Di scelta si è trattato, scelta che ancora attende parole e gesti compiuti per chiedere perdono, ritrovando senso e coraggio per un Amore che non ha somme da accreditare né divisioni da marcare. Le domande che assalgono ci fanno riflettere sui grandi misteri: il nostro cuore è aperto per accogliere? Le nostre mani si alzano al cielo con purezza, o cerchiamo solo un rifugio per sopportare le lacerazioni inferte a noi stessi e agli altri? Forse in quel Bambino che nasce si avvera l’incontro di tutti gli uomini, ognuno con le sue pene, oltre il peso dei macigni che ci portiamo addosso. Nel Suo volto, che già incarna lo sguardo dell’eternità, ci sono i volti di tutti gli uomini, diversi, lontani, vicini, custodi di vite passate, presenti e future, storie che parlano di ciò che non sappiamo riconoscere e accettare. Il Bimbo nasce, e la storia è la nostra storia, ci appartiene, ci conduce a cercare una mano da stringere per sempre. Negli occhi di quel Bimbo c’è la possibilità di una trasformazione che coinvolge l’interezza dell’uomo, un cambiamento altrettanto volontariamente scelto: persino in una prigione, in una cella, in uno spazio separato, può nascere la consapevolezza per accorciare le distanze tra gli uomini, nel superamento della condanna, nelle innumerevoli rese, noi riusciamo a pensare a Te, che nasci e già ami, e chiediamo perdono a te che nasci e muori anche per noi. |
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UN ESSERE VIVENTE SPECIALE Un brivido mi scivola giù per la schiena, freddo come la paura causata dall’impotenza, mentre accovacciato tra i miei piedi, il mio cane dorme e non fa caso allo sferragliare dei miei pensieri. Il mio cane non ha nobili tradizioni da sventolare, nè casate da tramandare, non è padre altero, nè figlio prediletto, non è il primo della fila, forse è l’ultimo della classe mal raggruppata. E’ solo un cane a cui è stata tolta a forza la storia di ieri, concedendogli con aristocratica parsimonia la sopravvivenza in un maledetto canile, affinché la memoria gli fosse cancellata tra stenti e abbrutimenti. Il mio cane è una bandiera che sventola i suoi ciuffi di simpatia a chi gli regala una carezza, non diffida né digrigna i denti quando incontra gli uomini, non ha smania di possesso con i suoi simili, ama i bambini ed i gatti dispersi sulla strada, non ha odio né rancore nello sguardo, neppure desiderio di rinnegare ciò che lo ha attraversato. Tra le curve della mia ira per chi ha abbandonato una bestia così umana, rimango persino perplesso per la possibilità di scacciare tanta speranza e fiducia. Ma forse la mia ira è sul serio mal spesa, perché di certo chi l’ha abbandonato è davvero un bastardo, per di più è uno scemo nel non sapere cosa ha perso. Non so più se è lui il vero trovatello, chi dei due ha trovato l’altro, o chi ha trovato cosa. Sono sereno nel sentirlo felice, mi sento bene del suo bene, e mi rendo conto che il mio cane non è uno slogan, non è il risultato di un programma ben architettato per indurre a fare accoglienza. Se ne sta al mio fianco insegnandomi il valore di quell’attenzione sensibile che non è solo la somma egoistica di una attenzione accudente-protettiva, bensì è attenzione per l’altro che mi cammina accanto, sia esso a due o quattro zampe. Il mio cane è parte che mancava all’appello nelle mille orme che lascia dietro di sé, mentre poggia il passo sulla mia via. “Beati gli ultimi perché saranno i primi” ci ha detto Qualcuno qualche secolo fa, allora a ben guardare, il mio cane è fatto apposta per meritare la mia fiducia, perché non ha dimenticato il senso del suo esistere quando gli è stata depredata l’identità, e tanto meno oggi che l’ha ritrovata non richiama spiriti di vendetta. Mi guarda e mi regala una leccata a tutto tondo sulla faccia, perché sa che non sarà mai più un cane perduto senza collare. |
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MACERIE CHE CI
LASCIAMO ALLE SPALLE
Giovani e adulti,
facoltosi e meno abbienti, ognuno a “farsi grande” con l’uso di sostanze
stupefacenti. |
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GRAZIE DON FRANCO DELLA CASA DEL GIOVANE
Siamo in un’era dove
“attenzione sensibile” sta per accudente protettiva, al punto da
sfociare in scuse improponibili che divengono illusoriamente
pacificanti; in giustificazioni che travestono di comodo ogni scelta e
responsabilità, dove la coscienza rappresenta più un’impalcatura
teatrale, che il senso che si è chiamati a dare. |
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IMPUTATO GESU’ DI NAZARET
Padre Giovanni Crisci, un
Frate Cappuccino di quelli tosti, perché nati con la terra alle
ginocchia, e le parole, quelle nude, intorno alle dita, mi ha fatto dono
in questi giorni del libro che ha pubblicato: Imputato Gesù di Nazaret.
FINITA LA FESTA LA
CROCE CI SALVA SEMPRE
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NEL RECINTO
CHIUSO
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